Giornalista culturale tra i più affermati in Italia, Riccardo Chiaberge ha diretto il supplemento della domenica de “Il Sole 24 Ore”, “Saturno” de “Il fatto quotidiano”, ed è stato caporedattore della redazione culturale del “Corriere della Sera”.
Lei ha diretto importanti supplementi culturali in Italia. Come si configura il rapporto tra il responsabile del supplemento culturale e il direttore o l’editore della testata?
Si può rispondere da caso a caso: nel senso che dipende dal giornale e dalla personalità del direttore. Riguardo alla mia esperienza personale, la situazione di gran lunga più privilegiata è quella che ho avuto dirigendo il supplemento culturale de “Il Sole 24 Ore”.
Esso è di proprietà, come è noto, della Confindustria che non ha interessi in senso stretto sul mondo editoriale e della cultura, anche se fra gli iscritti alla Confindustria c’è ovviamente la Mondadori e tante altre imprese editoriali. Però non sono queste ultime che influenzano la politica del supplemento, mentre altri giornali, come il Corriere della Sera, che fanno parte integrante di un gruppo editoriale, si trovano proprio esposti a queste pressioni: come si fa a stroncare in quella sede un libro della Rizzoli o della Bompiani? Qualche volta dei colleghi particolarmente coraggiosi ci provano, ma la tendenza è un’altra.
In un giornale come il Sole all’opposto sia per via della proprietà sia perché è un giornale economico finanziario, chi dirige l’inserto della domenica è un dominus quasi assoluto, perché i direttori che si succedono alla guida del quotidiano raramente o molto raramente intervengono: un po’ perché non hanno interesse a queste tematiche, un po’ perché il core business è la finanza, l’economia, con alcune significative eccezioni, quali Ferruccio De Bortoli, che aveva degli interessi anche culturali. Pur garantendomi la massima autonomia, in alcuni casi abbiamo avuto qualche frizione su qualche articolo o autore in cui lui avrebbe preferito una linea diversa, ma nella sostanza mi lasciava carta bianca, con un’attenzione che però era anche un sostegno. Uno si sente con le spalle coperte quando c’è un direttore che appoggia la tua linea editoriale; a volte però l’autonomia si trasformava in solitudine rispetto al resto della redazione: i giornalisti che lavorano al domenicale venivano visti dagli altri della redazione come dei privilegiati, come persone che si occupano di cose astruse, per cui c’era una continua tensione anche dal punto di vista sindacale. Qualche problema insomma anche lì c’era, ma, rispetto ad altre situazioni, il Domenicale del Sole si può considerare un’isola felice. Va in ogni caso precisato che l’inserto settimanale è già di per se una situazione fortunata, dal momento che non è sottoposto alle continue incursioni dell’attualità: ci si può permettere di fare la copertina su Plotino, anche se c’è la rivoluzione in Libia o la crisi dell’euro. L’inattualità è pertanto tollerata, mentre invece nelle pagine culturali dei quotidiani tu sei sempre sotto pressione, dietro alle agenzie che arrivano: “è stata trovata una lettera inedita di Garibaldi” o così via. Mi ricordo che quando ero al Corriere ricevevo almeno due o tre telefonate al pomeriggio che mi chiedevano di cambiare la pagina dietro a notizie che sopraggiungevano: l’oscuro studioso che sosteneva che la Gioconda di Leonardo era un uomo, o che era stata ritrovata la tibia di Caravaggio. Tutto ciò spingeva i caporedattori a spingere per risistemare in continuazione la pagina. Insomma basta riuscire a far diramare una notizia dalle Agenzie di stampa che si crea uno sconquasso nei giornali. E’ sufficiente ricordare quanto avvenuto qualche mese fa in merito ai disegni falsamente attribuiti a Caravaggio: i due ricercatori, autori della “scoperta”, sono diventati famosi per qualche giorno, hanno avuto il loro momento di notorietà, dopodiché sono stati spazzati via. In ogni caso i giornali hanno dato loro un risalto enorme perché ogni volta che c’è un grande nome come Caravaggio, Leonardo, Michelangelo, tutti entrano in fibrillazione. Se fosse stato un autore meno noto, non avrebbe avuto la stessa risonanza, lo stesso clamore mediatico. Diciamo quindi che la condizione di chi dirige le pagine culturali dei quotidiani è molto meno invidiabile perché difendere il perimetro della propria autonomia è una battaglia quotidiana contro le incursioni dell’attualità: alle 20 muore un poeta catalano di cui nessuno ha mai sentito parlare, e tu devi pubblicare necessariamente qualcosa perché l’indomani il giornale non può uscire senza quella notizia…
Chi orienta la linea culturale del supplemento e quali strumenti ha per perseguirla?
Diciamo che ci sono stati dei direttori che hanno avuto un loro ruolo nel progetto culturale di un quotidiano: l’esempio che mi sento di fare è quello di Paolo Mieli, un giornalista che ammiro ma con cui mi sono spesso trovato in disaccordo, che ha voluto portare sulle pagine culturali del Corriere della sera una vena polemica. Questa logica ha fatto sì che si pubblicasse tutto ciò che andava controcorrente, con una netta prevalenza della storia sulla letteratura. E’ stata la fase in cui negli articoli di ricostruzione storica si puntava molto sul revisionismo. Per un anno sono stato il responsabile della cultura sotto la direzione di Mieli e non mi sono mai trovato in sintonia con questa impostazione: le pagine culturali non possono essere costituite solo di polemica, non possono insomma ricalcare lo stile delle pagine politiche o sportive. Ripeto: la cultura non può essere solo oggetto di polemica e spettacolarizzazione, ma deve parlare anche di cose belle da leggere e da ascoltare.
Quale funzione svolgono oggi i supplementi culturali, spesso generalisti e per di più con un costo a parte, e come possono competere con il profluvio d’informazioni disponibili in rete?
Il vero rischio è proprio qui. Quando parlavo della lontananza della proprietà del Sole 24ore dalla cultura, e mi riferisco a quando sono entrato nel quotidiano negli anni 80, la distanza era siderale. Questa distanza si è ridotta nel corso degli anni quando gli imprenditori hanno scoperto che la cultura può essere un business per cui si è passati da una prima fase di sponsorizzazioni, a una seconda di pressioni a favore di tutte le istituzioni di cui entravano a far parte: fondazioni, teatri d’opera. Oggi poi con la crisi dell’editoria cartacea, si tende a inserire all’interno dei supplementi culturali, che sono, giova ricordarlo, molto costosi, degli inserti parapubblicitari (li ho fatti anch’io: poi ci mettevamo inserzione pubblicitaria o fatta in relazione a qualche struttura ecc. però per quanto si possano mettere dei caveat non è detto che il lettore capisca che è qualcosa a pagamento). Il problema in ogni caso è che lo spazio che ormai viene destinato agli eventi, portatori di business, finisce per comprimere lo spazio critico. Come si fa a parlare di una grande mostra al Palazzo Reale di Milano o al Vittoriano di Roma per poi stroncarla? Queste cose tolgono spazio alla critica; nel passato era proprio la critica la parte saliente del supplemento del Sole. Esso si è sempre distinto per ospitare opinioni molto lontane tra loro e anche dalla proprietà: ci hanno scritto Fortini, Geymonat e quando sono arrivato io ci ho portato Zolla, una persona che non ha mai avuto a che vedere con la cultura capitalista, pur essendo un uomo di destra; oppure Meneghello: insomma fino a qualche anno fa c’era la libertà di stroncatura: stroncatura di libri, di mostre, di concerti, di opere. Questa autonomia e questa indipendenza ha iniziato ad appannarsi con la crisi della pubblicità e delle case editrici che hanno sempre più bisogno di vendere per sopravvivere: tutto ciò, ripeto, a scapito della critica. Venendo alla distinzione tra quanto si legge in rete con quanto si trova in un supplemento culturale è palese, se si lega a firme autorevoli: una recensione firmata da un Ossola, un Pacchiano, un Sampietro è sinonimo di cosa seria, non di una patacca, come spesso capita di trovare in rete, anche se oggi anche qui si stanno formando dei brand, dei siti che hanno ormai acquistato una loro importanza.
Non trova che in molti quotidiani ma anche nella tv generalista venga spacciato per informazione culturale il gossip legato al mondo del cinema o della letteratura?
Sì questa è una tendenza che dipende più dalla presenza di una cronaca culturale, ma non fa parte integrante di un progetto culturale serio.
Come sono scelti i libri e le mostre d’arte da recensire?
La scelta delle mostre d’arte, come ho detto, può dipendere dalla pressione di coloro che hanno investito su di essa, cosa che capita sempre più spesso anche coi libri. Per dire l’ultimo libro di Walter Siti, Resistere non serve a niente, (Milano, Rizzoli, 2012), che detto per inciso è un ottimo libro, si è trovato recensito lo stesso giorno in cinque giornali diversi, ricevendo così una spinta promozionale incredibile. Insomma ciò significa che gli uffici stampa hanno lavorato bene – buon per lui, che se lo merita -, però voglio dire che queste sono cose orchestrate negli uffici stampa. Potrei fare anche altri esempi come quelle di autori che quando escono con dei libri viaggiano su “reti unificate” come Pansa, anche se ora lui un po’ meno. Questa pressione degli uffici stampa aumenta al punto da diventare ossessiva con la crisi dell’editoria in cui tutto si finalizza alla vendita dei loro bestsellers.
Recentemente è riaffiorato il problema del “conflitto d’interesse” tra critici/scrittori che recensiscono positivamente amici per ottenere in futuro un trattamento analogo. Quanto è fondata questa voce?
Il conflitto d’interesse non è solo una voce ma qualcosa di molto fondata, esiste una rete di scambi: spesso il critico ha una doppia veste, i giornalisti a loro volta diventano romanzieri, concorrono ai premi letterari: è quindi raro che scrivano contro il Campiello o lo Strega, che sperano di vincere a loro volta in futuro. Tutti questi scambi sono all’ordine del giorno, a volte sono più mascherati: il romanzo di Veltroni, a esempio, non lo si fa recensire dal critico letterario che potrebbe esprimere un’opinione negativa, ma lo si fa recensire da qualcuno che non si occupa di letteratura, anche se trattandosi di un romanzo andrebbe considerato alla stregua di altri romanzi. Insomma si aggira la cosa facendolo recensire da una penna più favorevole. Oltre allo scambio dei favori c’è l’aggiramento degli sfavori. L’esonero “ad personam” del critico letterario quando c’è qualcuno di riguardo che si vuole evitare di far stroncare. Vi sono numerosi casi: ho fatto l’esempio di Veltroni perché è il primo che mi è venuto in mente ma ce ne sono molti altri. Poi ci sono gli autori particolarmente “perniciosi” che ti tempestano di telefonate se osi scrivere una mezza critica sulla loro opera. Uno famoso è Alberto Bevilacqua: martellava non solo l’Ufficio stampa della Mondadori ma anche tutti i quotidiani sia per sollecitare una recensione, se non usciva nulla, sia per protestare in caso di articoli negativi.
Il discorso potrebbe allargarsi all’arte contemporanea, dove, come è noto, il fattore economico assume un fattore rilevante.
L’arte contemporanea è un discorso molto complesso, è un terreno sul quale non ho gli strumenti per intervenire; però posso osservare che in tutta la vicenda del Maxxi non ho letto alcun pezzo di rilievi critici sulla gestione di esso, su cui forse valeva la pena di spendere qualche parola; all’opposto tutti gli articoli si sono schierati compattamente a difesa del Museo, addebitando la crisi del Maxxi ai tagli alla cultura e alla spending review. Questo perché? Perché sono tutta una serie di piccole o grandi greppie di architetti, critici artisti che in qualche si sostengono tra loro. Eppoi l’arte contemporanea è fatta prevalentemente da gallerie private e quindi se si pompa un autore crescono le sue azioni sul mercato: per tale ragione quando ho diretto supplementi culturali mi sono sempre proposto di non parlare mai di mostre in circuiti privati ma solo in spazi pubblici. Però anche questo tutela fino a un certo punto, perché le figure che si occupano di arte contemporanea non sono tantissime, e spesso la confusione dei ruoli è all’ordine del giorno: possono insomma trovarsi da un lato come curatori di mostre, dall’altro come recensori sui giornali. Magari non parlano della loro mostra, però anche parlando di altre, possono avere degli elementi che influenzano il loro giudizio non solo per ragioni estetiche. E tutto ciò potrebbe rispondere a interessi precisi.
È stata calcolata l’incidenza sulle vendite dei libri o sugli ingressi nelle mostre dopo una segnalazione sul supplemento o nelle pagine culturali dei quotidiani?
L’incidenza sulle vendite di libri non è mai stata calcolato in maniera concreta, però si può affermare che l’effetto del Domenicale come anche quello di Tuttolibri ha un certo impatto. Decisamente più rilevante è l’effetto TV: pare che andare in trasmissione da Fazio garantisca la vendita di 20000 copie, forse anche di più.
Nell’epoca del social network il critico letterario ha ancora un ruolo?
È una discussione che ci porterebbe molto lontano. Io penso che il ruolo del critico letterario sia destinato se non a svuotarsi a cambiare, trasformandosi in una sorta di critico “diffuso” così come c’è l’intellettuale “diffuso”. Viviamo in un’epoca in cui cadono queste barriere di casta e forse è anche un bene. Eppoi come c’è il Trip advisor per i ristoranti, c’è qualcosa di analogo tra i lettori: penso alle recensioni dei lettori su Amazon, o a quelle in blog come www.anobii.com. Da queste recensioni nel mondo virtuale si ricavano spesso indicazioni molto interessanti, degne a volta delle pagine culturali cartacee.
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L'autore
- Carlo Pulsoni è il coordinatore di Insula europea (http://www.insulaeuropea.eu/carlo-pulsoni/).
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