María Reimóndez nasce a Lugo nel 1975; è traduttrice e interprete professionista. Come narratrice, scrive rigorosamente in galego e pubblica il suo primo libro, Moda Galega, nel 2002. L’anno successivo il suo O Cadermo de Bitácora riceve il premio “Mulleres Progresistas” di Vigo come miglior romanzo, primo di una lunga serie di riconoscimenti letterari. Oltre all’attività di interprete e traduttrice, si impegna attivamente nella cooperazione internazionale fin dal 1994, per poi fondare lei stessa una ONG, “Implicad@s no desenvolvemento” (impegnate/i nello sviluppo), che a tutt’oggi presiede e che si occupa in particolar modo di combattere la discriminazione di cui è ancora vittima la donna in alcune zone del mondo, oltre che di progetti di sviluppo focalizzati sul superamento delle discriminazioni di genere; la ONG è attiva in India dal 1998 e in Etiopia dal 2003. Ha inoltre fondato la “Asociación galega de profesionais da traducción e da interpretación”, di cui è segretaria.
Come si arriva a scrivere due opere così diverse come Il club della calzetta e Pirata?
Ogni romanzo è un mondo diverso, una ricerca diversa. Di solito comincio a scrivere perché scopro qualcosa che mi intriga, che attira la mia attenzione o che mi dà fastidio. Inoltre ogni romanzo rappresenta una nuova sfida formale e raramente penso a quello che ho già scritto nel momento di affrontare un nuovo progetto. È la nuova storia in concreto a trascinarmi, come se fosse un mondo a parte.
E come descriveresti, come racconteresti questi due romanzi? Come li riassumeresti a chi non li ha letti?
Como dicevamo, appunto, sono romanzi molto diversi tra loro. Tanto per cominciare, uno, il Club, è una storia assolutamente contemporanea, l’altro invece, Pirata, un romanzo che si svolge in un tempo lontano. Oltre a ciò, la struttura e lo stile stessi sono molto diversi tra di loro. Ne “Il club della calzetta” abbiamo sei donne che affrontano le piccole violenze di ogni giorno, ciascuna con una sua storia. Ogni capitolo del libro è una parte di un maglione. La metafora della calzetta si dipana nel romanzo in modo molto fluido, unendo i punti otteniamo quella struttura in cui ogni capitolo è una parte completa del maglione, ma quando “cuciamo” insieme queste singole parti ci si palesa una storia affatto diversa. Pirata è un romanzo introspettivo che si interroga sull’identità, la libertà e la ribellione ai limiti che la società tenta di imporci. Ciononostante, l’intero contenuto viene presentato in una forma che ho cercato di rendere dinamica, con parti ricche d’avventura e altre più riflessive, sovvertendo sia il romanzo storico sia il genere avventuroso, in modo da usarli per trattare temi che sono assolutamente contemporanei.
Detto ciò, bisogno comunque sottolineare che se pure ogni romanzo è completamente differente nella forma e nella trama, entrambi condividono (e credo che tutta la mia opera lo faccia) una stessa inquietudine verso temi essenziali quali la giustizia, l’uguaglianza, la voce, le identità e il potere. In ogni mio libro tali questioni compaiono trattate da punti di vista assai distinti, ma sono sempre lì.
Oggi la tua traiettoria come poetessa e soprattutto come narratrice è ben definita e delineata. Ma come sono stati gli inizi?
Ho cominciato a scrivere molto presto, in pratica appena ho imparato a leggere e scrivere. Ho sentito da sempre una necessità vitale di comunicare, deve trattarsi di qualcosa di molto forte perché in pratica tutte le diverse professioni che ho svolto e svolgo hanno alla base la comunicazione. La professione grazie alla quale vivo è quella di interprete e traduttrice, ed è basata proprio su questo affanno di comunicare; lo stesso si può dire del mio lavoro nel campo degli aiuti allo sviluppo, che io intendo come un processo di dialogo. La scrittura, è evidente, è una forma eccezionale di comunicazione che produce una immensa allegria. Detto ciò, va sottolineato che questa necessità di scrivere ha acquisito una nuova dimensione quando ho cominciato a pubblicare, un processo non privo di alcune difficoltà, ma che fa sì che la propria voce abbia una forte eco. Senza dubbio è stato il Club della calzetta il libro che mi ha dato la maggior visibilità pubblica e che mi ha fatto anche comprendere che quello che io concettualizzavo come una passione vitale ora cominciava ad essere anche un compito, un dovere, o almeno era un qualcosa a cui dedicare un certo tempo. Adesso cerco di prendermi ogni anno un certo periodo di tempo per dedicarmi solo allo scrivere, anche se non concepisco di abbandonare del tutto gli altri aspetti della mia vita.
Parlando dell’eco avuto dalla tua voce, il Club della calzetta è stato un romanzo tradotto prima in italiano e poi in spagnolo, oltre che adattato al cinema e al teatro. Come sono queste altre vite?
A dire il vero, sono molto orgogliosa del fatto che la prima traduzione del Club sia stata fatta in italiano, prima ancora che in castigliano, quello che tutti chiamano più comunemente spagnolo. Può sembrare una cosa irrilevante, ma non lo è perché noi scrittori che scriviamo in lingue non egemoni, e nel nostro caso particolare con la presenza sempre più oppressiva del castigliano, gli ostacoli per essere visibili all’estero sono assai numerosi. Non dobbiamo mai smettere di evidenziare e apprezzare, con tutto l’affetto possibile, il ruolo di persone come te, Attilio, che danno visibilità alla nostra letteratura e alla nostra cultura. Se dovessimo aspettare che da parte dello stato spagnolo ci venga data voce o rappresentatività, allora le nostre opere non riuscirebbero mai a viaggiare. Esiste il diffuso pregiudizio che chi ha qualcosa di “rilevante” da dire, lo dice in castigliano, pertanto la comprensione delle letterature scritte nelle altre lingue dello stato spagnolo soffre di profonda ignoranza e patisce tale pregiudizio. Per fortuna, nel resto del mondo ci sono molte persone che amano la nostra lingua e che conoscono bene quanto vi si scrive. Queste persone fanno notevoli sforzi per renderci visibili, in un impegno politico che davvero ci ridà speranza nel mondo in tempi in cui la speranza è uno dei beni che più scarseggiano.
Hai preso parte al processo di adattamento del romanzo al cinema e al teatro?
In quello per il teatro sì, ho avuto un ruolo di co-adattatrice perché Celso Parada, il regista della compagnia Teatro do Morcego, che ha messo in scena il testo, ci teneva parecchio a che io partecipassi. L’opera teatrale è meravigliosa e ha avuto un successo spettacolare, grazie senza dubbio al lavoro delle attrici e alla messa in scena di Parada. Nel film il mio ruolo fu irrilevante, se escludiamo il fatto che in esso ho avuto un piccolo cammeo! In ogni caso, sia negli adattamenti sia nelle traduzioni, io ritengo che la responsabilità non è più mia, ma dell’adattatore o del traduttore. Da parte mia, se la persona in questione vuole consultarmi su qualcosa o contare sul mio aiuto nel progetto, io ne sono felicissima, ma non è qualcosa che mi aspetti, né tanto meno, come fanno alcuni autori e autrici, qualcosa che io esiga. Il fatto di essere io stessa una traduttrice mi offre probabilmente una visione molto più critica del mio ruolo di autrice e mi porta a considerare le relazioni in forma più orizzontale.
I tuoi romanzi, sia quelli per il pubblico infantile, sia quelli per il pubblico adulto, hanno ricevuto numerosi premi; in questo contesto, che peso hanno i premi?
Un premio è sempre il riconoscimento di un lavoro svolto, per tanto danno una soddisfazione enorme. Mi ha fatto particolarmente piacere il premio Frei Martín Sarmiento, un premio ricevuto dal mio romanzo per bambini Lía e as zapatillas de deporte, Lia e le scarpe da ginnastica, perché lo conferiscono centinaia di bambine e bambini che devono selezionare il migliore fra tre libri, con il loro voto sovrano e segreto. Il giorno in cui il premio viene consegnato, c’è un incontro con tutta questa massa di bambini che fanno un’infinità di domande alle autrici e agli autori finalisti per quasi due ore. Quando, dopo la sessione di domande, è stata finalmente dichiarata l’opera vincitrice, mi sono sentita come una stella del rock, tali erano le grida di allegria delle bambine e dei bambini. È stato molto emozionante. La letteratura infantile per me è un divertimento meraviglioso.
Tra non molto il tuo romanzo Pirata sarà pubblicato in italiano. Hai qualche particolare desiderio in proposito?
Nonostante l’affetto che sento per il Club della calzetta, per il successo che mi ha dato e il contatto con così tanta gente, Pirata per me è un’opera particolarmente speciale. Forse per il fatto di essere rimasta un po’ in ombra dietro al Club, penso che abbia ancora molto da raccontare e non vedo l’ora che il pubblico italiano possa conoscerla. Si tratta di una storia in cui si intersecano diversi livelli, dalla critica a come viene narrata la “storia ufficiale”, fino alla scoperta dell’identità di genere, sessuale e di classe.
Senza dubbio ho molta voglia di tornare in quel meraviglioso paese che è l’Italia e parlare con il pubblico dei lettori, cosa che ho avuto la fortuna di poter fare in occasione della pubblicazione del Club della calzetta e che rimane per me un’esperienza memorabile.
L’opera letteraria di María Reimóndez in Italia è già stato pubblicato un romanzo per i tipi di Gran Via di Milano, Il club della calzetta: sei donne molto diverse tra loro frequentano un circolo di lavoro a maglia: una domestica obesa, una giovane impegnata politicamente, una ragazza bellissima e stanca di essere considerata solo un soprammobile, un’anziana molto religiosa, una prostituta, una donna con una grave menomazione fisica. Tra un punto a maglia e l’altro si intrecciano i racconti, nascono vincoli di amicizia, la solitudine di ognuna si trasforma in solidarietà. Sei donne che si sono incontrate per “calzettare” e hanno messo in comune le proprie esperienze e le proprie storie. Tre anni dopo sono ancora assieme: dal gomitolo che le aveva unite sono uscite tutte diverse, ciascuna a suo modo. Scritto con una sorprendente struttura “a maglia”, Il club della calzetta è un romanzo a più voci che parla di ogni donna, dei suoi ruoli, della sua libertà, delle sue piccole e grandi battaglie quotidiane.
Su una linea del tutto diversa è invece Pirata, (Vigo, Xerais, 2009). Lo sfondo è quello del romanzo storico, ambientato tra le isole frequentate da pirati e corsari di patente inglese. La storia, quella di due “piratesse”, Mary Read e Anne Bonny, personaggi storici realmente esistiti. In linea con il tratto narrativo che caratterizza la Reimóndez, lo sguardo alla storia -sia quella con la minuscola che narra le vicende delle due protagoniste, sia quella con la maiuscola delle guerre da corsa- è tutto al femminile. Non tanto e non solo perché vediamo narrato nel romanzo il mondo del settecento attraverso gli occhi delle due protagoniste; due donne che arruolandosi nei pirati scelgono la forma più estrema di ribellione: sovvertono i canoni maschilisti della loro epoca che le voleva mogli sottomesse unendosi a coloro che la società la rifiutavano radicalmente. Al femminile perché è lo stesso punto di vista della narrazione ad essere tale, senza diventare mai però acriticamente femminista. La storia è resa viva e interessante da frequenti e folgoranti colpi di scena che si innestano senza artificiosità nel tessuto narrativo, offrendoci un affresco della condizione femminile che, trascendendo i confini storici, si rivela di estrema attualità.
Sono due romanzi assolutamente diversi. Il tratto caratterizzante del primo è una forte ironia (autoironia? forse, dato che ognuna delle 6 protagoniste potrebbe essere l’autrice, senza tuttavia mai esserlo davvero) che resta sottotraccia per tutto il romanzo. Inoltre è un romanzo che scorre veloce, come un gomitolo di lana che si srotola e tiene unite le sei storie che si cuciono insieme.
Il secondo, Pirata, è del tutto diverso. L’ironia, segno caratterizzante dell’altro lavoro, è del tutto assente, anzi, a tratti il romanzo è quasi cupo. Poi l’ambientazione, quella del romanzo storico -nettamente diversa dallo sfondo precedente assolutamente contemporaneo- su cui si innestano momenti di profondo intimismo, legati alle riflessioni della protagonista sulla propria condizione, che rivendica da sempre con orgoglio, ma che inizialmente non riesce ad accettare.
Due stili diversi, due generi opposti, ma la stessa mano, direi quasi le stesse problematiche, pur se affrontate sotto profili del tutto distanti, con occhi sempre diversi. Un buon romanzo può significare tante cose, ma non è sufficiente a segnare la nascita di una grande scrittrice, specie se nei successivi non si fa altro che riscrivere il primo. Maria sfugge a questa trappola e ogni volta si reinventa autrice, esplorando generi e stili nuovi, con coraggio e con professionalità.
attilio.castellucci@uniroma1.it
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L'autore
- Attilio Castellucci è laureato in Filologia Romanza presso la Sapienza, Università di Roma, materia nella quale ottiene anche il Dottorato di Ricerca. In seguito si trasferisce per cinque anni a Santiago de Compostela, dove lavorerà presso il centro di ricerche umanistiche “Ramón Piñeiro”. Attualmente lavora come tecnologo all'Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, dove si occupa di comunicazione e realizza documentari; in passato ha esercitato anche con la qualifica di direttore di biblioteca. Per svagarsi, insegna alla Sapienza, Università di Roma, dove impartisce Lingua e Letteratura Galega ma, all'occorrenza, anche Filologia Romanza e Lingua Spagnola; materia, quest'ultima, che ha insegnato anche presso l'Università degli studi della Basilicata. Quando può, si dedica alla traduzione, con un discreto numero di titoli tradotti al suo attivo, soprattutto dal galego e dallo spagnolo, ma senza disdegnare altre lingue, quali il francese e l’inglese. È responsabile dell'accordo tra la Xunta de Galicia e la Sapienza, Università di Roma: dal 1999 dirige il CEG di Roma, il Centro di Studi Galeghi. Dal 2019 al 2022 ha fatto parte del Consiglio direttivo dell’AIEG, l’associazione internazionale di studi galeghi; attualmente, nella stessa associazione, fa parte del Consiglio Scientifico.
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