Da qualche mese è uscito il tuo saggio El fantasma en el libro, in cui affronti il tema della traduzione in modo chiaro e conciso. Grazie alla presenza di vari aneddoti e al suo stile dinamico, questo libro si presenta molto accessibile al lettore comune e si allontana dal saggio tradizionale che a volte diviene una sorta di prodotto per eruditi. Che accoglienza sta avendo in Spagna e nel resto del mondo?
In realtà non lo so bene, tantomeno ne ho avuto percezione mentre stavo pubblicando il libro. Si pubblicano pochi libri sulla traduzione in generale e quasi tutti quelli che si pubblicano sono accademici, all’interno di case editrici specializzate, e di solito sono libri di teoria della traduzione o libri tecnici, manuali. Libri di divulgazione sulla traduzione letteraria ce ne sono pochi e nel mondo ispanico quasi affatto. Mentre svolgevo la mia ricerca, ho trovato principalmente saggi letterari sulla traduzione, scritti generalmente da traduttori che sono anche scrittori, che trattano della loro esperienza in casi specifici, come, per esempio, i libri di César Aira che cito nel mio saggio. Non esiste il saggio divulgativo dedicato a questi argomenti, quindi, quando il libro è stato pubblicato, neanch’io avevo un’idea chiara di come sarebbe stato accolto. Stentavo a credere che una casa editrice come Seix Barral potesse pubblicare un libro sulla traduzione: per questo motivo, qualsiasi destino avesse avuto, l’avrei accettato. Per il momento la sua vicenda editoriale è limitata solo alla Spagna. Adesso stanno uscendo le prime recensioni in Argentina, ma il problema dei paesi latinoamericani è che la distribuzione è molto limitata, quasi non si trovano luoghi in cui si vendono libri pubblicati in Spagna. Oltretutto è un libro pensato per il mercato spagnolo. In un mondo ideale mi sarebbe piaciuto destinarlo ad un pubblico iberoamericano, ma ho i miei limiti; così come posso affermare che ho una buona conoscenza di come si pratica la traduzione in Argentina, non posso dire lo stesso per ciò che riguarda la Colombia o il Messico, per cui alla fine è diventato un libro molto ispano-argentino. L’accoglienza da parte dei mezzi di comunicazione è stata ed è buona. Come dicevo, persino troppo buona per essere un libro incentrato su un tema che non interessa a nessuno.
Nel libro intraprendi un breve excursus storico lungo i diversi sentieri della traduzione. Da quella che denomini “l’età eroica” di Cicerone e i suoi contemporanei, passando attraverso le differenze fra il concetto di traduzione di Nabokov e Borges, per giungere, infine, ai giorni nostri in cui sembra che il traduttore sia “un semplice grossista” a servizio delle grandi case editrici. “Ai traduttori è vietata l’interpretazione”, affermi. Fino a che punto credi che possa essere soffocata oggi la vena creativa di un traduttore? Tu che hai tradotto tanto e per case editrici così diverse, dimmi: esiste un margine di libertà più ampio per la creatività quando si lavora per una casa editrice alternativa?
No. Esiste una dinamica di lavoro, una serie di abitudini nel mondo editoriale che possono variare da paese a paese, ma nel mercato spagnolo in cui ho lavorato non c’è nessuna differenza tra grandi e piccole case editrici. Credo che non ci siano tante differenze sotto diversi punti di vista e non solo rispetto alla questione della traduzione. L’edizione indipendente è stata un fenomeno che ha cambiato radicalmente il mercato, in un certo senso lo ha spaccato, ma non ha rappresentato, secondo me, uno scarto nel mondo del lavoro, neanche rispetto ai cataloghi e alla letteratura che si pubblica. Ci sono eccezioni, è vero, se spostiamo lo sguardo verso case editrici specializzate o underground. Ma, in generale, si lavora allo stesso modo in tutte le case editrici, forse per il fatto che c’è stata una specie di ‘porta girevole’ fra editori di grandi gruppi editoriali e piccole case editrici: molte case editrici indipendenti sono formate da persone che sono state buttate fuori dai grandi gruppi. La differenza fra una casa editrice grande e una piccola, nel caso della Spagna, perché ad esempio negli Stati Uniti è molto diverso, è il fatto che le case editrici piccole non hanno soldi per pagare grandi autori, quindi ciò che fanno è nutrirsi del fondo del catalogo delle grandi case editrici, pubblicando autori più economici’, ma non necessariamente autori dallo stile particolare, o più avanguardista e difficile, per una semplice ragione: hanno anche bisogno di sopravvivere e devono provare a entrare nelle dinamiche di ciò che è potenzialmente commerciale. Sono sottoposte alle stesse leggi del mercato dei grandi gruppi editoriali, il che significa che tratteranno una traduzione allo stesso modo. Una traduzione deve essere sempre chiara, fluida, corretta.
Rispetto al tema della creatività del traduttore, bisogna dire che nessuno oggi vuole un traduttore creativo. Il traduttore creativo appartiene a un’epoca in cui il lettore non avanzava nessuna richiesta, come quella di leggere ciò che dice l’originale. Esisteva una visione della traduzione quasi come genere letterario, in cui si capiva che il traduttore aveva adattato il testo e ci aveva messo qualcosa di suo. Oggi tutto questo non esiste e non credo che ritornerà perché viviamo in una cultura globale in cui esiste un criterio di veridicità riguardo alle traduzioni. Ci sono anche differenze che dipendono dall’ambito. È vero che esiste un maggior margine d’azione per i traduttori di poesia, sebbene con delle eccezioni. Per esempio, una traduzione di poesia di un’edizione bilingue non ha così tanto margine di libertà. La situazione attuale è quella che è e non credo che cambierà. La struttura del mio libro prova a rispecchiare tutto ciò, per questo l’ho diviso in due parti. C’è una parte che si riferisce a una situazione passata, in cui il traduttore era uno scrittore – era più letterato che traduttore -, e una che verte invece sulla situazione odierna, in cui il traduttore è più traduttore che letterato. Un specie di tecnico delle lingue a cui si richiede una certa competenza letteraria.
La questione dello spagnolo “panispanico”, dello spagnolo “neutro”, ciò che tu chiami lo “spagnolo delle traduzioni” è di estrema attualità. Le traduzioni in spagnolo cercano sempre più di rifuggire dall’identificazione con un’area geografica concreta a favore di uno spagnolo più globale. I lettori latinoamericani si lamentano perché non si sentono rappresentati da questo spagnolo. Come credi che possa cambiare questa situazione? Esisterà prima o poi un reale dialogo fra le due sponde dell’Atlantico?
Per me non è una questione di estrema attualità. È così da un secolo, è successo da sempre. C’è stata una dialettica basata sulla posizione dominante dei mercati editoriali del Messico, del Cono Sud e della Penisola Iberica, che per ragioni politiche hanno vissuto una posizione dominante a fasi alterne. Fin quando c’è stata una posizione dominante c’è stata un’esportazione editoriale e questa esportazione editoriale includeva, ovviamente, l’esportazione delle traduzioni. Ciò significherebbe che abbiamo vissuto cent’anni di infelicità con traduzioni da ritenere estranee. Persone con idee a riguardo ce ne sono, nel libro rielaboro alcune testimonianze che possono offrire delle soluzioni. Il problema si risolverebbe nel momento in cui i mercati fossero autoctoni e non ci fosse bisogno di esportare libri, il che significa anche una perdita. Ciò che non è realistico è l’esistenza di una serie di mercati della traduzione autosufficienti all’interno del mondo ispanico, ossia, che ogni paese rifornisca i propri mercati della traduzione. Il motivo per cui i mercati non possono essere autosufficienti è dovuto, innanzitutto, all’assenza nella maggior parte dei paesi ispanofoni di un mercato editoriale sviluppato in modo sufficiente. Sono paesi con economie in via di sviluppo, dove la traduzione non si è ancora professionalizzata, per cui i suoi lettori dipenderanno in misura più o meno maggiore da traduzioni straniere. Forse questa non è una soluzione per la Spagna, perché continua ad avere il mercato editoriale più forte. Forse la soluzione dovrebbe essere una questione pedagogica. Educare al fatto che uno può leggere una traduzione scritta in una varietà dello spagnolo che non è la sua allo stesso modo in cui uno può leggere un romanzo scritto in una varietà dello spagnolo che non è la sua. Credo sia un problema difficilmente risolvibile. Un’altra possibilità forse sarebbe quella di proporre per le traduzioni uno spagnolo che non sia di nessuna parte, come per esempio lo spagnolo delle traduzioni di Cortázar, che apparentemente non appartengono a nessun luogo. Ciò che succede in realtà è che non esiste un tipo di spagnolo standard latinoamericano, ma ci sono varietà dello spagnolo che spopolano, come lo spagnolo della Spagna e dell’Argentina, non a caso i paesi che traducono di più, che non si somigliano affatto. Nel libro la mia intenzione era più che altro quella di constatare questa situazione, non offrire un rimedio, perché non ce l’ho. Volendo essere utopisti, se si eliminasse la precarietà degli scenari editoriali delle capitali latinoamericane, assistendo alla nascita di grandi case editrici e quindi centri di produzione, ci troveremmo in una situazione di gran lunga migliore e non esisterebbe più questo problema.
C’è chi dice che il “politicamente corretto” è la nuova forma di censura. In che misura influisce sul modo in cui si traduce?
La questione non mi tocca particolarmente. In pratica tutte le case editrici si adeguano a un modo di essere corretti che non è politico, beh, lo è ma in modo diverso, che è quello della Real Academia Española e quello dei diversi manuali di stile e dei libri istituzionali. Questo modo di essere corretti non ha ancora raggiunto ciò che noi consideriamo essere politicamente corretto. Non l’ha raggiunto e non so nemmeno se un giorno lo raggiungerà. Qualsiasi intervento del traduttore mosso dal politicamente corretto in questioni razziali, di genere o di altro tipo, sarebbe immediatamente modificato dai correttori della casa editrice a cui appartiene. Per esempio, un paio d’anni fa ho tradotto un libro intitolato We Should Be All Feminists: la traduzione del titolo celava già di per sé un inganno. La traduzione corretta, secondo me, sarebbe Todo el mundo debería ser feminista, ma la traduzione corretta per la RAE, che considera il maschile il genere non marcato, fa sì che questo libro sia uscito tradotto nelle librerie come Todos deberíamos ser feministas. Con tutto ciò voglio dire che non credo che esista nessun tipo di pressione nel momento in cui si traduce.
C’è un tema che suscita sempre molta curiosità ed è quello delle traduzioni dei titoli di opere che differiscono abbastanza dagli originali, in molte occasioni obbedendo a strategie commerciali e in altre alla regola del politicamente corretto, o a entrambe. Il traduttore ha qualche tipo di potere decisionale in queste questioni?
Il traduttore non ha alcun controllo finale sulla traduzione. Al traduttore si chiede una competenza, non un giudizio. Prima c’è il traduttore, che verrà corretto da un correttore. Al correttore si richiede maggior giudizio che al traduttore, e al di sopra di questo correttore ci sono gli editori, e al di sopra di questi i settori marketing. Perciò, il traduttore è l’ultimo che può prendere una decisione finale rispetto alla sua traduzione. Infatti, spesso il traduttore non vede nemmeno la traduzione una volta consegnata e proprio il titolo è ciò su cui ha meno controllo. Spesso chi possiede una certa influenza sul titolo dell’opera letteraria oggigiorno sono gli addetti commerciali che vanno da una libreria all’altra, quindi si suppone che abbiano una certa conoscenza di ciò che è vendibile e ciò che non lo è. Nel mio caso è diverso, io non solo ho la possibilità di rivedere la traduzione, ma anche di dare la mia opinione sulle correzioni. Ma il mio caso non è rappresentativo perché sono un privilegiato fra i traduttori, forse perché ho una lunga carriera alle spalle e perché come scrittore posseggo una mia produzione, ma la maggior parte della gente che oggi lavora nelle case editrici non gode di questa possibilità.
Nel tuo libro spieghi con ammirevole chiarezza le condizioni lavorative svantaggiose dei traduttori in Spagna rispetto ad altri paesi, soprattutto quelli anglofoni. Esistono alcune iniziative portate avanti dall’ACE (Associación Colegial de Escritores de España) Traductores per proteggere i diritti dei traduttori, ma è evidente che non sono sufficienti. Cosa bisognerebbe cambiare per migliorare questa situazione?
La situazione dei traduttori non può migliorare di per sé. Il grande problema adesso è che chiunque nel settore culturale sta male e stava male anche prima che iniziasse nel 2008 una recessione economica incredibile. La Spagna non è mai stato un paese dove i professionisti della cultura potessero vivere bene. Il risultato della recessione e di una serie di questioni relative alla circolazione della cultura è stato che intere professioni se ne sono andate al diavolo, come per esempio i giornalisti. Quando ero più giovane, un giornalista poteva guadagnarsi da vivere, adesso non più. Ora si trova ad un livello appena più alto del mendicante del film di Monty Python. Ciò che non ha senso è che solamente i traduttori rivendichino in modo autonomo condizioni migliori rispetto a tutti gli altri lavoratori del settore editoriale e culturale.
Uno dei problemi eterni all’interno del mondo della traduzione è la relazione fra la traduzione e la scrittura. Tu che pubblichi i tuoi propri romanzi e che traduci quelli degli altri, esiste veramente una differenza tra tradurre e scrivere?
Ci sono alcuni elementi che ovviamente accomunano il traduttore e lo scrittore, entrambi condividono una serie di strumenti tecnici, come un’ipotetica padronanza del linguaggio letterario o un’ipotetica conoscenza della tradizione letteraria, ma non sono uguali. Sì, credo nell’analogia fra entrambe le attività e, sì, credo anche che dovrebbero essere più vicine l’una all’altra. Penso, per esempio, che sarebbe interessante tornare a questa specie di visione modernista o moderna della traduzione intesa come qualcosa di non così lontano dalla scrittura creativa, ma non credo che sia la stessa cosa, non penso che debbano essere la stessa cosa.
Negli ultimi vent’anni si è pubblicato una gran quantità di romanzi i cui protagonisti sono i traduttori. A cosa si deve questa nuova valorizzazione del traduttore come protagonista?
Conosco il fenomeno solamente per sentito dire, ma non saprei dire a cosa si debba. So che ci sono molti romanzi, soprattutto in questi ultimi tempi, ma non saprei dire esattamente perché. È probabile che esista una certa interpretazione metaforica del ruolo del traduttore, come persona fra due mondi, ma anche per una tendenza a idealizzare il mestiere.
Un’ultima curiosità. Da mesi stai concedendo delle interviste a differenti mezzi di informazione: qual è la domanda che non ti hanno mai rivolto e alla quale da sempre avresti voluto rispondere?
Non mi viene in mente nessuna domanda, ciò che sì mi piacerebbe dire è che è una situazione un po’ strana il fatto di pubblicare questo libro per poi diventare una sorta di portavoce dei traduttori letterari: non lo sono affatto. Per me questo è un libro fatto di tesi più che un libro puramente di rivendicazione. E sono tesi con cui so che molti traduttori non sono d’accordo, forse perché si sentono molto più a loro agio nel loro ruolo come ingranaggio all’interno del sistema editoriale. L’unica cosa che ho fatto è stata parlare a briglia sciolta alla gente e a volte questo è stato interpretato come una specie di riflesso della mentalità dei traduttori, il che mi sembra molto difficile.
(traduzione di Marco Paone)
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L'autore
- BA, Spanish Language and Literature, University of Santiago de Compostela; MA, Literary Theory and Comparative Literature, University of Santiago de Compostela. PhD student of the program Latin American, Iberian and Latino Cultures at The Graduate Center (CUNY). Main interests: Exile; Translation Studies; Contemporary Peninsular Literature; Galician Studies; Transatlantic Studies; Women's Studies.