Il suo libro Europa Anno Zero si è rivelato profetico almeno in parte: la Gran Bretagna ha votato a favore dell’uscita dall’Unione Europea. Può darci un’opinione a posteriori sul Brexit, su questo primo tarlo nell’impalcatura dell’UE? Come giudica il comportamento di Farage che, dopo aver raggiunto il suo obiettivo, si è ritirato a “vita privata”?
Prima di tutto Nigel Farage non si è ritirato a vita privata, ma continua a percepire lo stipendio da parlamentare europeo, cosa che suona piuttosto bizzarra, soprattutto dopo l’uscita del Regno Unito dalla UE. Farage si è limitato a cedere la leadership dell’Ukip alla sua vice, Diane James, dopo che formalmente aveva raggiunto il suo obiettivo politico: la Brexit. L’uscita dell’UK dalla Unione Europea, però, è ancora tutta sulla carta: non c’è una tabella di marcia e soprattutto non si è ancora capito quanto l’Europa vorrà “punire” il Regno Unito per la sua decisione. Certo è che se negozieremo al ribasso con Londra (consentendo loro la libera circolazione delle merci e lasciando però sovranità sull’immigrazione, ad esempio), il modello “exit” potrebbe essere invocato da molti paesi, ed è molto pericoloso.
Europa Anno Zero è il suo primo libro. È il frutto di ricerche e interviste sul campo: un grande reportage sul delicato presente dell’Unione Europea. Come nasce artisticamente il progetto? Nasce prima la necessità di confrontare in parallelo paesi affini o il desiderio di scrivere un libro? Glielo chiedo perché le sue doti narrative e descrittive sono notevoli.
Ho iniziato a seguire le destre nazionaliste europee nel 2012 quando, allora per Piazzapulita (La7), ho coperto le elezioni francesi e il primo vero exploit del Front National guidato da Marine Le Pen. Da allora ho intervistato due volte la leader del FN, ho seguito l’affermarsi di Alba Dorata in Grecia, le spinte islamofobe in Germania e quelle autoritarie in Ungheria. Quando l’editore Marsilio mi ha proposto di scrivere un libro, ci è sembrato normale dargli la forma di un viaggio, di un reportage nel cuore dell’Europa attraverso sei paesi diversi e al tempo stesso simili nelle inquietudini politiche.
Lei crede nell’Unione Europea?
Ci credo fortemente, ma non ho un approccio fideistico: questa Unione ha enormi limiti, e vanno corretti. Ma vuole sapere per me qual è il primo vero limite dell’Ue? Il peso che hanno gli Stati e i capi di Governo. Serve più Europa, e non meno Europa, come amano farci credere certi leader politici.
Aldo Cazzullo, in un articolo scritto a ridosso del Brexit per il corriere.it, esordisce con la sconvolgente e semplice verità “Non soltanto l’Ue sarà l’unica unione a parlare la lingua – l’inglese – di uno Stato che non ne fa parte. Il Regno Unito era il software dell’Occidente […]”. Appellandomi in particolare all’Eva Giovannini linguista, le chiedo: quali sono secondo lei gli impatti linguistici – e anche culturali, chiaro – del Brexit sull’Europa? Quale potrebbe essere la lingua franca appresa dagli studenti europei in un futuro plausibile?
Quella della lingua è una questione curiosa. Non credo che l’inglese cesserà di essere la lingua principale, nonostante Londra non faccia più parte della famiglia europea. Ormai l’inglese è una lingua globale, è la lingua della tecnologia, dei social network, del business, della moda, e vive ben al di fuori dei confini nazionali britannici. Però un problema linguistico nel Vecchio Continente esiste: andare verso la costruzione degli Stati Uniti d’Europa parlando ventisette lingue diverse non aiuta per niente.
Di nuovo una domanda rivolta al dottore in lingue e letterature straniere: qual è il valore di una tale formazione? Su quali lingue ha impostato il suo percorso accademico e quali poi si sono dimostrate effettivamente fondamentali per la sua carriera – e per la sua vita?
Nei miei studi universitari mi sono concentrata sulla lingua (e la letteratura) inglese e spagnola. Al liceo avevo studiato il francese, che mi è stato molto utile nel lavoro. Parlo anche un po’ di portoghese, e prima o poi mi piacerebbe fare un reportage dal Brasile, un paese che da solo ha la metà degli abitanti dell’Unione Europea, che è da sempre un laboratorio politico per il Sudamerica, eppure è costantemente ignorato dai nostri media.
Italia anno zero: quali sono le prospettive per il nostro Paese in un futuro prossimo? Ritiene sia presente nello scenario politico italiano odierno una personalità o un movimento capaci di rappresentare una svolta positiva in Italia?
Credo che l’Italia, in rapporto all’Europa, sia tra i paesi cui si può rimproverare di meno. Anche guardando alle personalità che ha espresso in passato (Ciampi, Prodi, Monti), siamo sempre stati un paese profondamente europeista. Oggi la strada è in salita, ma credo che il lavoro del premier Matteo Renzi vada nella giusta direzione – a partire dal richiamo ai principi di Ventotene – e lo stesso vale per la presidente Laura Boldrini, che ha cercato di coinvolgere i suoi omologhi europei nel processo di integrazione europea. Ma l’Italia, come il resto d’Europa, non è immune al suo interno da movimenti populisti, che offrono soluzioni semplici a problemi complessi, e che usano la retorica antieuropeista per rastrellare consensi tra le fasce sociali più vulnerabili.
Qual è a suo avviso la più grande ricchezza della nostra nazione, quel carattere che la rende unica in Europa e nel mondo?
Dell’Italia, e degli italiani, mi piace la capacità di adattamento, il nostro essere elastici e creativi. Per dirla con Nicholas Taleb, credo che la caratteristica che consentirà all’Italia di salvarsi, sarà la sua “antifragilità”, che non è sinonimo di robustezza.
Con la tragedia del terremoto nel centro Italia sembra essersi consolidata una forma di giornalismo “nuova”: un ibrido tra il reportage e il servizio di Pomeriggio Cinque, fatto di interviste che riservano un’attenzione particolare alla tragedia umana delle vittime, che puntano a sviscerare l’esasperazione intima di gente comune travolta da una catastrofe. È davvero questo che il pubblico si aspetta dal giornalismo, catarsi (se di questo si tratta) anziché informazione?
È sbagliato, a priori, voler censurare le emozioni in televisione. In questi anni ho imparato una lezione: il problema non è “cosa” si mostra, ma “come”. Si può mostrare un dramma in prima serata, e persino le lacrime, senza per questo poter essere paragonati alla Tv del dolore. Il modo di girare, di montare, di porgere le domande, le musiche, le inquadrature: lo stesso servizio può essere buon giornalismo o giornalismo spazzatura. Victor Hugo diceva che “la forma è il contenuto che affiora in superficie”.
Segue spontaneo: i giornali sono un servizio pubblico o un prodotto commerciale? E i libri?
Tutto ormai è mercato. Anche i nostri post personali su Facebook sono inseriti in un circuito commerciale. La televisione, anche quella pubblica, non può vivere di solo canone. I giornali, poi, sono strettamente dipendenti dalle inserzioni pubblicitarie. Non credo che questo sia un bene, ma al momento non ci sono altri modelli vincenti all’orizzonte. Tutto sta nel trovare un compromesso tra le esigenze di mercato (anche nell’editoria) e la libertà aurorale e giornalistica di raccontare la realtà anche quando non è immediatamente “vendibile”.
Qual è l’importanza di trovarsi in loco, di essere sul posto? Il reportage va interpretato come un’opportunità per combattere censure e interdizioni di un Paese denunciandone la realtà all’estero oppure come un mezzo per placare la curiosità di chi resta in casa?
Mandare i giornalisti in loco è molto importante, ma non basta. Un inviato dovrebbe avere il tempo per stare nei posti che racconta, non solo nel momento “caldo”, ma anche prima e dopo, per non avere sempre un approccio emergenziale alle notizie. Questo atteggiamento rischia di placare le curiosità superficiali del telespettatore, ma ne non aumenta il grado di conoscenza e né di consapevolezza.
Quali sono i suoi modelli in ambito giornalistico?
Ultimamente sto rileggendo certi scritti giovanili di Oriana Fallaci, come “Il sesso inutile”. La Fallaci è stato un personaggio urticante e controverso, ma resta una maestra assoluta. Aveva un intuito giornalistico incredibile, una capacità di osservazione pungente e, soprattutto, aveva sempre un punto di vista sulle cose che raccontava. Potevi non condividerlo, ma non potevi ignorarlo.
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L'autore
- Maristella Petti, classe 1992, è nata e cresciuta a Bolsena. È formata in lingue (inglese, spagnolo e portoghese), letterature comparate e traduzione. È dottoranda in critica letteraria dialettica presso l'Universidade de Brasília. Tra le sue pubblicazioni, il saggio La resistenza nella poesia nera femminile brasiliana contemporanea (Sensibili alle foglie, 2018) e la traduzione dell’antologia poetica bilingue Encontros com a poesia do mundo II / Incontri con la poesia del mondo II (Editora da Imprensa Universitária, 2018).
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