Periodicamente si riapre la discussione sull’opportunità che l’Europa (intesa come Unione Europea) abbia un’unica lingua, che, assieme all’euro, al mercato unico e alla libera circolazione delle persone, contribuisca a dare ai 500 milioni di cittadini dell’Unione una forte identità comune. Da ultimo, in Italia, il dibattito è stato ripreso da Roberto Sommella, giornalista specializzato in economia, che, in un intervento pubblicato anche nel «Corriere della sera» del 5 gennaio 2016, con il titolo L’unione europea ha bisogno di una vera lingua comune, ha riproposto la questione. L’ha fatto collegando, in maniera che a me non è risultata sempre facilmente intellegibile, la richiesta di una lingua comune alle difficoltà che l’Unione, e i governi che la compongono, continuano ad avere nel presentare ai propri cittadini, in maniera chiara e comprensibile, le novità normative e concettuali con le quali si sta costruendo il complesso contesto istituzionale ed economico unitario dell’Europa.
Ho già cercato di ribattere (nel “Piccolo” e nel mio blog) a questa richiesta, che ritengo irrealizzabile, se non in tempi molto lunghi. Credo che ci siano almeno quattro punti da affrontare:
- per garantire una forte identità all’Europa, è necessaria una lingua comune?
- ci sono le condizioni per portare i 500 milioni di cittadini europei ad avere in comune una sola lingua?
- quale potrebbe essere questa lingua?
- se il processo di unificazione linguistica fosse possibile e auspicabile, sarebbe comunque un processo lungo. E nel frattempo, cosa fare per garantire ai cittadini europei una maggiore conoscenza delle norme dell’Unione?
Per quel che mi riguarda, ritengo che l’unificazione linguistica sia difficilmente realizzabile, e comunque non sia auspicabile; che, in ogni caso, se di lingua unitaria si deve parlare, l’inglese è più di un passo avanti rispetto alle altre ventitré lingue dell’Unione; e che, nel frattempo, bisogna continuare a lavorare perché l’Unione Europea parli sempre più le lingue dei cittadini e sempre meno le lingue dei burocrati.
Esaminiamo punto per punto.
L’idea di individuare una lingua comune mi appare un’utopia intellettualmente povera, che richiama il principio romantico, che credevo ampiamente superato, della nazione «una d’arme, di lingua, d’altare, / di memorie, di sangue e di cor». Che l’unità linguistica non sia un elemento necessario per la costituzione di uno Stato forte e coeso è ben dimostrato dalla Svizzera: nonostante le sue quattro lingue (tre delle quali lingue nazionali di altri Stati) per circa 8 milioni di abitanti, i suoi cittadini hanno un forte senso identitario che si nutre, evidentemente, di principi diversi da quello basato sulla lingua. Certamente, per guardare al futuro può essere utile costruire un’utopia, che immagina l’esistenza di una lingua comune grazie alla quale tutti gli Europei potranno parlare direttamente tra di loro, e con le istituzioni, senza bisogno delle mediazioni, per esempio, dei traduttori. Ma un conto è proporre un’utopia, un’aspirazione, un altro è immaginare davvero che, in tempi ragionevoli, si possa pensare di individuare e di diffondere un’unica lingua che si affianchi, come lingua pienamente dominata, alle lingue attualmente usate, come lingue materne, dai cittadini europei.
Gli argomenti che vengono portati per motivare la richiesta di una lingua comune sono tre: quello relativo allo sviluppo di uno spirito identitario, quello economico (i grandi costi dell’attività di traduzione dei documenti europei), l’osservazione che grandi potenze come gli Stati Uniti parlano con una voce sola, rappresentata da una lingua sola.
Per quel che riguarda lo spirito identitario, ritengo sbagliato credere che questo spirito possa essere promosso individuando e imponendo una lingua unica. Semmai è più facile che accada il contrario: quando il senso identitario europeo si sarà consolidato nella popolazione, allora emergerà, forse, la necessità di un’unica lingua e la disponibilità dei diversi popoli europei ad affiancare alla propria lingua ereditaria, una lingua sovranazionale, scelta di comune accordo. Per quel che riguarda il problema economico, è vero, la traduzione è una grande voce di spesa nel bilancio europeo (ogni anno vengono tradotte, credo solo a livello di Commissione, quasi due milioni e mezzo di pagine). Ma chi propone l’adozione di un’unica lingua per l’Europa, ha stimato i costi che questo processo richiederebbe? È vero che sarebbero costi che andrebbero computati, in dimensioni così ampie, una volta sola, ma credo che sarebbero costi colossali. Infine, l’esempio di altri grandi Stati, come gli Stati Uniti. Ma l’attuale popolazione degli Stati Uniti è frutto di una prima emigrazione sviluppatasi in età moderna, e di successive ondate migratorie che si sono innestate su una base anglofona già assestata: una situazione del tutto incomparabile con quella europea, che vede la presenza di ventiquattro lingue, tutte di tradizione millenaria, appartenenti a ceppi linguistici ben diversi (lingue romanze, germaniche, slave, ugrofinniche, baltiche, oltre al gaelico, lingua celtica, al maltese, lingua semitica, al greco, che fa gruppo a sé). E non bisogna dimenticare che l’adozione dell’inglese come lingua degli Stati Uniti ha comportato la violenta scomparsa delle lingue autoctone, un vero genocidio linguistico. Insomma, quella degli Stati Uniti non solo non è una situazione comparabile con quella dell’Europa, ma non è neppure un esempio a cui fare eticamente riferimento.
Con queste argomentazioni abbiamo già affrontato la seconda questione, e cioè la realizzabilità di un eventuale processo di unificazione linguistica. Si tratterebbe di un processo epocale, mai visto finora dall’umanità: 500 milioni di cittadini, che adesso parlano lingue di lunga tradizione, appartenenti ai più diversi ceppi linguistici, dovrebbero convergere sul possesso pieno di un’unica lingua. Il ben più facile processo di dissolvimento del latino (è sempre più facile distruggere che creare) è durato secoli. Certo, i mutamenti sociali del terzo millennio sono più veloci di quelli del primo millennio della nostra era; ma non si può certo pensare a un processo rapido, indolore, destinato a rapido successo. D’altro canto, fino a quando non ci sarà un dominio pieno da parte di tutti di una eventuale lingua comune, non si potrà rinunciare al multilinguismo che caratterizza attualmente l’Unione Europea.
E c’è da tener presente un altro punto: siamo in una fase della storia linguistica europea nella quale sembrano prevalere le spinte disgregatrici rispetto a quelle unificanti. Basti pensare a due situazioni diverse, ma egualmente emblematiche dell’attuale fase: da una parte la rivendicazione di indipendenza della Catalogna, che ha nella rivendicazione linguistica uno dei suoi punti di forza; dall’altra il processo di diversificazione del croato dal serbo, come conseguenza del frazionamento statuale successivo alla dissoluzione della Federazione jugoslava (in questi casi sì che c’è un nesso tra identità statuale e identità linguistica: resta il fatto che è più facile dividersi che unirsi).
In ogni caso, se vogliamo dare all’utopia dell’unificazione linguistica una parvenza di realizzabilità, non possiamo decidere a tavolino (con quale potere sociale, poi?) quale potrebbe essere la lingua comune degli Europei. Ho sentito fare le ipotesi più diverse: da lingue esistenti, come lo spagnolo, a lingue artificiali, come l’esperanto, a lingue prive da secoli di parlanti nativi, come il latino. Per partecipare al gioco potrei proporre l’italiano, in quanto lingua del potere temporale della Chiesa, e quindi come espressione di una delle radici culturali di cui spesso di parla, con enfasi, a proposito dell’Unione Europea (lo dico, naturalmente, per ironizzare sulle ipotesi cervellotiche che vengono avanzate: so bene, tra l’altro, che cristianesimo non può essere assimilato al cattolicesimo).
Ma se proprio vogliamo giocare alla scelta della eventuale lingua unica per l’Europa, non possiamo non tener conto della realtà: gli Europei, spontaneamente o abilmente guidati (scelga il lettore l’ipotesi che preferisce), hanno già individuato una lingua comune, almeno per la comunicazione spicciola o per quella tecnica: l’inglese. Possiamo naturalmente avere tutte le riserve del caso, pensando che l’inglese veicolare dei viaggiatori, ma anche quello dei tecnici e degli scienziati, è una lingua franca, generica e inadeguata ai bisogni comunicativi della complessa società europea. E possiamo anche avere dei dubbi che l’identità europea possa essere rappresentata bene dalla stessa lingua del colosso statunitense. Però non c’è dubbio su un fatto: c’è già stata un’accettazione ampia dell’inglese come lingua per gli scambi comunicativi meno complessi tra persone che hanno lingue materne diverse di comunicazione e molti hanno già acquisito l’inglese, a diversi livelli di imperfezione, come strumento utile a questo scopo. Con l’inglese, insomma, non si partirebbe da zero. Non è un particolare irrilevante, sia dal punto di vista del processo sociale da intraprendere, sia dal punto di vista dei costi.
La conclusione di questi ragionamenti è che ancora per lungo tempo, se non per sempre, la realtà linguistica dell’Europa sarà il multilinguismo. Per quel che mi riguarda, mi pare una prospettiva del tutto auspicabile, nel rispetto delle radici policentriche dell’Europa. Accanto al multilinguismo potrebbe essere utile sviluppare l’intercomprensione, cioè lo sviluppo della competenza passiva di un certo numero di lingue, in modo che ciascuno possa esprimersi nella propria lingua materna, essendo capito e potendo capire gli altri parlanti europei (un’abilità certamente più facile da sviluppare riferendosi a lingue della stessa famiglia linguistica che non a lingue di famiglie linguistiche diverse).
In ogni caso, il multilinguismo implica da una parte un armonico sviluppo del lessico istituzionale in tutte le 24 lingue dell’Unione, dall’altra un’enorme attività di traduzione dei testi istituzionali nelle 24 lingue.
Da questo punto di vista, i traduttori delle istituzioni europee, ma anche quelli delle istituzioni nazionali, fanno un gigantesco lavoro per rendere chiari a tutti i cittadini europei, nella loro lingua materna, attualmente posseduta, le decisioni degli organismi europei. A volte ci riescono bene, a volte meno: non solo perché, come tutte le attività umane, anche la traduzione è sempre perfettibile, ma anche perché gran parte della chiarezza dei testi tradotti dipende dalla chiarezza del testo di partenza. Troppe volte, poi, il loro lavoro è vanificato dai media: accade quando i traduttori propongono un corrispondente italiano, a volte felice a volte no, ma giornali, radio, tv continuano a usare acriticamente l’anglismo. È emblematico il caso di hotspot nel senso di ‘punto di primissimo smistamento allestito in prossimità dei luoghi di sbarco degli Stati di frontiera, in cui viene assicurata una rapida identificazione e registrazione dei migranti’. Nelle traduzioni di Bruxelles hotspot era reso con punto di crisi (una soluzione che giudico infelice, perché confligge con un uso consolidato di punto di crisi in contesti come «tutte le civiltà prima o poi raggiungono un punto di crisi», ma che ha comunque il merito di usare materiale lessicale italiano).
Insomma, non sono il multilinguismo e la traduzione a ostacolare la diffusione delle idee, ma la complessità insita nella creazione di un ordinamento giuridico diverso da ognuno degli ordinamenti nazionali; una complessità che riguarda sia il piano dei concetti, sia quello dei termini che servono a rappresentare quei concetti. Da questo punto di vista, gli Stati membri dell’Unione (non dimentichiamolo: sono loro che ne decidono le politiche) e le istituzioni dell’Unione dovrebbero in effetti spiegare meglio ai propri cittadini le decisioni che prendono tutti assieme. Serve sì una “lingua comune”, nel senso di una lingua (italiana, inglese, francese, tedesca, spagnola, polacca …) che risponda a criteri comuni di semplicità e comprensibilità. Se i documenti che regolano la vita dei cittadini dell’Unione Europea saranno scritti nella maniera più chiara, e semplice, possibile, pur nella complessità dei concetti da esprimere, sarà più facile ai traduttori rendere in maniera efficace quei documenti nelle 24 lingue dell’Unione Europea.
Da parte sua, il Dipartimento italiano della Direzione generale della traduzione ha attivato una rete di condivisione e consulenza (REI, “Rete per l’eccellenza dell’italiano istituzionale”), di cui si sono celebrati da poco i dieci anni. L’obiettivo è quello di trovare le soluzioni migliori per rendere efficaci e comprensibili in italiano i testi redatti sia nelle sedi plurilingui sia in quelle nazionali monolingui. I principi sono chiari (sono stati sintetizzati nel Manifesto per un italiano istituzionale di qualità), la loro realizzazione non è né facile né immediata, perché coinvolge chi ha ben presenti gli obiettivi di chiarezza e semplicità (traduttori, redattori, linguisti), ma anche quanti concepiscono politiche, norme, direttive, anche molto complesse: non sempre la chiarezza della lingua è uno dei parametri prioritari utilizzati per la stesura dei testi istituzionali.
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L'autore
- Michele Cortelazzo (Padova, 1952), si è formato alla scuola di Gianfranco Folena. È professore ordinario di Linguistica italiana all’Università di Padova, dove dirige la Scuola Galileiana di Studi Superiori. Socio corrispondente dell’Accademia della Crusca, dal gennaio 2018 è presidente dell’Associazione per la Storia della lingua italiana (ASLI). I suoi interessi di ricerca si rivolgono in particolare alla lingua italiana contemporanea, alle lingue speciali e all’utilizzo di metodi quantitativi nell’analisi dei testi. I suoi contributi principali sono raccolti nei volumi Lingue speciali. La dimensione verticale (Padova, Unipress, 1990), Italiano d’oggi (Padova, Esedra, 2000), I sentieri della lingua. Saggi sugli usi dell’italiano tra passato e presente (a cura di C. Di Benedetto, S. Ondelli, A. Pezzin, S. Tonellotto, V. Ujcich, M. Viale, Padova, Esedra, 2012). È inoltre autore di Il linguaggio della politica (Roma-Firenze, Editoriale L’Espresso-Accademia della Crusca, 2016) e, con Federica Pellegrino, della guida alla scrittura istituzionale Roma-Bari, Laterza, 2003).
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