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La letteratura ceca non ha più da tempo nulla di cui vergognarsi. Anna Cermanová intervista Tomáš Zmeškal

 

Tomáš Zmeškal è nato a Praga nel 1966 (il padre ha origini congolesi). Ha studiato lingua e letteratura inglese, ha lavorato come assistente universitario, lettore, traduttore, interprete e insegnante. Per parecchi anni ha insegnato in una scuola superiore a Londra, ora insegna inglese in Repubblica Ceca. Ha pubblicato alcuni racconti su rivista e nel settembre del 2008, presso la casa editrice Torst, il suo Lettera d’amore in scrittura cuneiforme, appena tradotto in italiano per Safarà editore.


Otto anni fa Lei ha cominciato a scrivere il romanzo Mílostný dopis klínovým písmen [Lettera d’amore in scrittura cuneiforme], che ha terminato nel giro di due anni. In un’intervista ha accennato al fatto di aver cominciato a scrivere questo romanzo in parte anche come protesta (o risposta) nei confronti dell’ondata di prose autobiografiche e diaristiche di allora. Come vede il suo romanzo oggi? E cosa pensa, a distanza di tempo, dei diari e dell'”autenticità” letteraria?

Ho cominciato a scrivere il romanzo più o meno nel 1999, ma certamente non “per protesta”. Dopotutto anch’io ho scritto testi autobiografici e non volevo certo contrappormi in modo così radicale a questo genere di testi. Solo che, dopo essere tornato dall’Inghilterra, ho iniziato ad avvertire in modo piuttosto netto che qui era il genere dominante e che non volevo identificarmi con esso. In secondo luogo, a quell’epoca insegnavo letteratura inglese alla facoltà di pedagogia e mi è capitato in mano un libro di un teorico americano, dedicato esclusivamente al genere diaristico. In esso era descritto tutto alla lettera. E quindi sono arrivato alla conclusione che prima o poi questa moda sarebbe passata. Il mio romanzo lo vedo sempre allo stesso modo – come una storia di persone che devono in qualche maniera far fronte alla storia. Forse in modo imperfetto, ma devono comunque trovare una strada. E il modo con cui cercano di risolvere la situazione li conduce ai confini del possibile, di ciò che possono sopportare. In particolare, ai confini di ciò che il “potere” – in qualsiasi modo – permette o rende loro possibile.

Lettera d’amore in scrittura cuneiforme aspira con il suo tema e il suo arco temporale a ciò che viene definito “grande romanzo” o “romanzo sociale”. Si sentiva, almeno in parte, erede di questo genere di aspirazioni letterarie nella storia della letteratura ceca contemporanea? Scrivendo era cosciente della continuità del romanzo ceco?

A questo non avevo pensato per niente. Quando nel 1999 sono tornato a casa dalla Gran Bretagna, conoscevo solo sporadicamente cosa era stato pubblicato negli ultimi dieci anni. Da giovane mi aveva impressionato il romanzo di Josef Škvorecký Příbeh inženýra lidských duší [Il racconto dell’ingegnere delle anime umane] – avevo all’incirca diciassette anni e questo libro mi ha profondamente sconvolto. Suonerebbe però, se mi considerassi come suo erede oppure l’erede di qualche altro scrittore ceco che mi piace, forse alquanto presuntuoso. Molti scrittori mi ispirano; dopo il mio ritorno a casa ho cercato oltre a Škvorecký anche i libri di Milan Kundera, Jaroslav Hašek, insomma le cose basilari che volevo avere. Consapevolmente, però, non ho mai avvertito questa continuità. Non mi è del tutto consono nemmeno “aspirare” a qualcosa. Volevo piuttosto organizzare le idee nella mia testa e la forma letteraria mi ha dato l’opportunità di farlo. Ed è ovvio, la letteratura è ciò che nella vita mi soddisfa maggiormente perché ne coglie l’essenza. Non volevo volontariamente esprimermi sulla storia. Mi interessa piuttosto il procedere dei ricordi: come giochiamo con essi e come tentiamo di spiegare a noi stessi che cosa abbiamo realmente vissuto. In questo, la storia è sempre tendenziosa e forse non potrebbe essere altrimenti. Dopo aver abbandonato la Cecoslovacchia comunista, mi ha incuriosito la storiografia inglese, ma dopo alcuni anni ho capito che nella maggioranza dei casi anch’essa, in certe questioni, è altrettanto tendenziosa, dato che anche gli inglesi hanno la propria propaganda, la propria ideologia ecc. Però la manipolano in maniera così elegante che a volte non ce se ne rende conto nemmeno un po’. Almeno la letteratura, a differenza della storia, ammette una predilezione personale.

I personaggi del suo romanzo vivono in un’epoca in cui gli scrittori (e la letteratura in genere) avevano chiaramente un ruolo dato, una funzione sociale determinata dal fatto di essere a favore o contro il regime. Cosa pensa del ruolo o della funzione sociale dello scrittore oggi? Sente di farne parte?

Con la funzione dello scrittore non voglio avere nulla a che fare. Proprio per niente! L’epoca contemporanea del resto l’ha modificata radicalmente, così come avviene in ogni società democratica, persino in quelle che si orientano in modo ancora goffo verso la democrazia. Una volta di tanto in tanto ci sono elezioni libere, il loro risultato vi può piacere o meno, ma ciò funziona, grazie a Dio. In una simile situazione il ruolo sociale dello scrittore si trasforma radicalmente. Ho la vaga sensazione che persino all’epoca del totalitarismo gli scrittori fossero costretti e che non rimanesse loro altra scelta. Almeno se erano allo stesso tempo anche coraggiosi. Non era una vera scelta. Unica nel suo genere fu la Primavera di Praga, in cui personalità eccellenti e creative formularono le idee di tutto il popolo cecoslovacco, ma fu solo un’eccezione. Con riferimento a oggi, non mi sento di ricoprire alcun ruolo. E del resto i miei personaggi non dovevano vivere negli anni Cinquanta, originariamente era un racconto molto più contemporaneo.

Eppure la critica sostiene che il suo romanzo sia in realtà un romanzo politico e che, a proprio modo, contribuisca all’interpretazione della storia di questo paese…

È vero che tutti noi, ad un certo punto, leggiamo nel giornale biografie così atroci di persone perseguitate dal regime che non possiamo restare indifferenti. Ma dal 1999, quando ho cominciato a scrivere Lettera d’amore in scrittura cuneiforme, molte cose sono cambiate. Al giorno d’oggi esistono istituzioni che si sforzano di fare qualcosa, anche se in modo maldestro. Questo prima non accadeva. La cosa che mi interessava di più, è il modo in cui si sono fatti i conti con quell’epoca. E naturalmente questa è una cosa che è impossibile separare dalla storia di questo paese. Siamo cresciuti qui. Capisco che questo romanzo venga interpretato politicamente, ma mi è più vicina un’interpretazione nel contesto della storia. Nel senso delle parole di Joyce: “La storia è un incubo, dal quale sto cercando di svegliarmi”.

Stavo pensando che il romanzo è il suo modo personale di raggiungere qualcosa attraverso un libro, che proprio questa sarebbe la sua “politica”.

Se avessi avuto questa intenzione, allora avrei scritto il libro in modo diverso. Non ho progettato nulla di simile. Ciò che Lei dice scaturisce forse dall’eco avuta dal libro – e ai miei occhi tale eco è stata maggiore di quanto mi sarei mai aspettato, ha rappresentato per me quasi uno shock. Durante la stesura del romanzo mi affascinava maggiormente qualcosa di diverso, con cui forse si scontra ogni scrittore, e cioè che è possibile inventare le cose più incredibili, ma la vita umana, comunque, va sempre oltre la dimensione del verosimile. Se poi si descrive la vita umana così come si è svolta, si viene criticati per aver esagerato. Naturalmente, ogni tanto prendo in prestito qualche libro sulla storia della Cecoslovacchia, ma mi sembra che da essi io non venga a sapere nulla sui momenti chiave che mi interessano. Al contrario, si scopre che esistono aree della storia – diciamo, ad esempio, l’epoca della Prima Repubblica – sulle quali tutti sorvolano con discrezione. Quindi non resta che cominciare a ricordare come quell’epoca veniva ricordata in famiglia, tra i genitori e i nonni, perché i ricordi personali sono in questo senso molto più importanti che alcuni testi di storia mal confezionati.

Il tema del romanzo è il male nell’uomo, l’istinto irrazionale verso di esso, il desiderio di potere e di dominio. La storia lascia intenzionalmente irrisolta la domanda sull’“origine” del male. Com’è giunto a questo argomento? E ha trovato – magari nei quattro anni dalla fine della stesura del romanzo – una risposta?

Durante il dottorato in letteratura inglese rinascimentale ho trovato terribilmente stimolante quanto il Rinascimento si interessasse a questi temi: al potere, ai suoi abusi, al male e alla crudeltà. Il mio autore preferito di questo periodo è Thomas Middleton, che ha sempre sviluppato tali tematiche nei modi più svariati. A ciò ha aggiunto del suo anche la nostra società, che ha sempre voluto, infatti, risolvere in qualche modo la questione del male. La storia d’Europa, in quest’ottica, è particolarmente interessante: come singole società, anche quelle totalitarie, abbiano tentato di trovare un equilibrio con il male e di escogitare sempre nuovi modi per evitarlo. Solo che, appena la macchina totalitaria ha cominciato in qualche modo a funzionare, ha causato danni ancora maggiori. La domanda resta come risolvere questa questione?. Penso che in generale ciò riguardi il grado di burocratizzazione della società. Ancora oggi non possiamo fare quasi niente senza il timbro di un’istituzione e queste strutture hanno per di più un potere enorme. È giusto? È sbagliato? Ma Lei mi ha chiesto del male… Io la risposta non la conosco.

Nel libro collega il male e la violenza anche al sadismo, che per me rappresenta piuttosto un complesso psicologico o una forma di sessualità vissuta in modo poco consueto, che non deve necessariamente avere a che fare con il male e la reale tortura. Cosa significa per Lei il sadismo della principale figura negativa? L’ha inteso anche come emblema di qualcosa di più profondo?

Ho elaborato questa parte al tempo in cui cercavo di conseguire un dottorato e leggevo molto gli scrittori e drammaturghi del Rinascimento inglese. É da non credere quanto fossero crudeli quelle opere. Alcune scene sono tanto terribili che è quasi impossibile farne un adattamento – in una di esse, ad esempio, il fratello uccide il corteggiatore della sorella e le porta il suo cuore infilzato su un pugnale. Presumibilmente, in quella scena veniva usato un cuore di pecora, che si poteva vedere bene anche da lontano. Quando avete letto così tanto e siete immersi in venti o trenta opere di tale provenienza, nello scrivere vi vengono in mente esattamente le stesse cose. Ancora un esempio per tutti: Tamerlano il Grande di Christopher Marlowe. In una scena Timur-Tamerlano vuole legare a sé la donna di cui è innamorato, e al tempo stesso soggiogarne il popolo. Lei lo odia e non vuole sottomettersi a lui. Viene messo in scena in questo modo: lui si guarda attorno per quella regione fino ad allora inespugnabile ed indica una città. Se la donna non gli si concederà in sposa, farà ridurre quella città in cenere. A lei la scelta. Potete indovinare da soli come andrà a finire. A quel tempo mi stavo anche occupando dell’intreccio narrativo in Shakespeare ed altri autori. Bisogna sapere che ci sono sempre due piani: il primo, che deve catturare l’attenzione del pubblico, e il secondo, che è emblematico, allegorico o satirico. Il Rinascimento dopotutto aveva a disposizione intere raccolte di emblemi. Io in quella parte del libro procedevo in maniera simile, e nel capitolo su Dante ho inoltre cifrato per così dire l’intero significato del libro. Così scrive, ad esempio, Chaucer, e devo dire che ciò mi attira molto di più dell’epoca seguente. Non mi interessava l’aspetto psicologico della cosa, non si trattava dello sfondo degli eventi, volevo solo farvi accenno e lasciare il resto aperto. Forse, se avessi saputo che il libro avrebbe avuto un riscontro tanto positivo, avrei magari fatto più attenzione… Ma questo non l’avevo considerato. Questo libro ha avuto una lunga gestazione. Non avevo un’unica idea da cui avrei poi costruito tutto, al contrario, tutto si è sviluppato gradualmente e lentamente, l’ho messo insieme con gran difficoltà. Alcuni motivi hanno preso una direzione propria, si sono rispecchiati appunto nei testi che stavo leggendo in quel momento. Il capitolo del sadismo è stato però piuttosto ponderato, a tal punto che temevo di averlo espresso in modo troppo forte e che potesse distorcere l’interpretazione dell’intera storia. Sono solo quindici pagine o ancora meno, ma attirano molto l’attenzione. È tutto basato sulla combinazione di potere, sesso, piacere e seduzione. Il parallelismo con la macchina totalitaria è evidente. Il seduttore è il potere.

Il romanzo può rappresentare un mondo chiuso, monolitico, sul quale l’autore cerca di avere pieno controllo, ed anche uno spazio pluralista, accessibile, aperto a più interpretazioni ma anche al disorientamento del lettore. A quale si sente più vicino?

Mi sento certamente più vicino alle cose aperte. In più, penso che se un’opera cerca di riflettere la vita nella sua ampiezza, il romanzo chiuso sarà sempre solo una costruzione. Mi sembra una specie di fiaba per adulti: tutti sanno come inizia e come finisce. I matematici già negli anni ’80 hanno formulato la teoria del caos, e hanno scoperto che in realtà nulla funziona alla perfezione, nemmeno le funzioni matematiche. D’altro canto il romanzo aperto non significa però che l’autore si sia arreso. Anche in quanto insegnante, vedo che i ragazzi a scuola hanno bisogno di regole, e questa necessità esiste sempre. Se l’uomo riflette su questo con più attenzione ed accuratezza, non può non vedere che a porre quell’ordine nelle cose, nei fenomeni, nella vita, è solo lui stesso.
Quando le regole si riflettono bene nel testo e vi trovano compimento, può essere perfetto. Mi sembrava però di non voler nulla del genere nel mio libro. Anche a costo che alcune cose restassero in sospeso. I miei amici già prima della pubblicazione mi dicevano che, davanti a quella determinata linea narrativa, avrebbero voluto sapere come sarebbe andata a finire, mi esortavano a concluderla… Ma non l’ho fatto.

La critica ha accolto il suo romanzo con un quasi unanime “sì”, e nel giro di poco tempo Lei ha concesso una serie di interviste per la stampa e la televisione. Che sensazione la accompagna nel corso di questa post-presentazione, quando l’opera è già (da così tanto tempo) terminata?

Ho concluso il romanzo più o meno nel 2003. Poi ho dovuto tornarci su, nel frattempo avevo scritto altre cose, altri testi, riguardanti ormai temi completamente diversi. Ma mi ha fatto piacere. È stato perlopiù del tutto inaspettato.

Non ha avvertito nei confronti del testo un certo senso di espropriazione? Che la critica in realtà le stesse portando via l’opera?

La critica è stata nei miei confronti molto ben disposta, e io stesso sono stato per lunghi anni più un teorico, quindi so cosa questo comporti. In una certa misura ho in realtà compatito i critici, perché il peggio che vi possa accadere è dover valutare i libri di un autore del quale non sapete assolutamente nulla. È quasi una maledizione. Non conoscete il contesto, la storia personale… Io stesso sarei stato ben poco felice di occuparmi di un libro del genere. E mi sembra che in questo la critica se la sia cavata davvero bene. In una recensione ho ad esempio letto che mi servo del montaggio cinematografico, cosa a cui non avevo mai pensato prima, ma quando ci ho riflettuto su, mi è venuto in mente che effettivamente ho una certa familiarità con il film e la storia del cinema, e questo vi si è probabilmente riflesso. Del resto, se non scrivessi, farei probabilmente lo storico del cinema. In secondo luogo, la critica mette l’opera in contrasto con un suo personale ideale letterario, e questo è sempre interessante. L’ho già vissuto in precedenza, ma ora naturalmente in modo molto più intenso. Un mio amico, un professore di ceco che aveva letto il testo già prima che uscisse, mi ha dato dieci pagine piene di raccomandazioni su come “migliorarlo”. Una volta lette attentamente tutte le sue osservazioni, mi sono reso conto che avrebbero reso Lettera d’amore in scrittura cuneiforme un testo completamente diverso, sulla falsariga dell’esistenzialismo letterario. Sarebbe stato un libro del tutto differente da quello che avevo cercato di scrivere. E così ho messo da parte i suoi appunti e non ho cambiato nulla nel mio testo.

Una folta schiera di recensori ha lodato l’elaborata composizione del romanzo e il colto gioco intertestuale, Lei però in un’intervista ha lasciato intendere che il libro sia nato – malgrado la sua struttura a mosaico – piuttosto spontaneamente. Qual è dunque il suo metodo creativo?

È stato tutto estremamente laborioso. Prima ho cominciato a scrivere spontaneamente, ma poi ha smesso di funzionare. Per tutto il tempo ho cercato principalmente di oppormi a una trama chiaramente predeterminata, ma volevo sviluppare certi temi. Ho lasciato libero corso a questo solo in parte. Alcuni motivi hanno così spesso preso un’altra direzione – da un paragrafetto, per dirne una, è venuto fuori un intero capitolo. Questo è ad esempio il caso di Persia o del personaggio di Hynek. Riconosco che vi sia una serie di cose che forse non sono del tutto accessibili ai lettori. Ma le ho semplicemente lasciate là.

Quindi non c’è stato nessun lavoro sulla composizione, nessuna ragionata pianificazione dell’ordine dei brani, per ottenere il senso desiderato…?

Per quanto riguarda alcuni capitoli, era chiaro fin dall’inizio che avrebbero dovuto stare l’uno accanto all’altro, ma in altri casi non avevo veramente idea di come disporli, anche per me era sostanzialmente un romanzo aperto. Poi l’ho passato al vaglio: questo lo voglio, questo no; cercavo di valutare fino a che punto quell’ordine avrebbe avuto ancora senso. In questo ho avuto abbastanza successo, ma è stato pure molto difficile. Mi sono anche divertito con le allusioni: in un capitolo, ambientato in un futuro lontano, mi son fatto beffe della fisica contemporanea. Ai noti acceleratori di particelle ho aggiunto anche dei rallentatori. Ho anche inserito un omaggio alla mia preferita figura politica femminile del Medioevo, Eleonora D’Aquitania. Solo che se il lettore non conosce la storia della guerra dei cent’anni, probabilmente non si godrà molto l’allusione al fatto che, in un distante avvenire, Inghilterra e Francia costituiranno di nuovo una bizzarra federazione.

Lei è un anglista, e dunque conosce bene la storia e la teoria della letteratura. Scrivendo ha avvertito questo bagaglio culturale?

Sì, con mio gran dispiacere. È un dono e una maledizione. La conoscenza della teoria mi ha tenuto terribilmente a freno, ho dovuto lottare con l’autocensura. Non appena un testo ha più di cinquanta pagine, non può più essere perfetto, e il teorico che è in voi, anche se è un ex teorico, vi forza con l’autocritica e la censura a cercare quella perfezione. Quando poi scrivete, avete voglia di riscrivere tutto altre tre volte, perché sia impeccabile. E quando poi lo è, non è per niente spontaneo. Mi muovevo tra questi estremi, ma era molto sgradevole, ho cercato quanto più possibile di svincolarmi. E questa è stata la cosa più difficile. Ho anche una grande diffidenza verso i cosiddetti dialoghi “di strada”. Ancor prima del 1989, mi sono diplomato in un istituto tecnico edile ed ho lavorato per un certo periodo in un cantiere, e quindi so – o perlomeno a quel tempo sapevo – come si parla in quell’ambiente. Quando poi vedete qualcuno che prova a imitarlo, è più che altro una caricatura. Là ho conosciuto, ad esempio, un capomastro che parlava la lingua letteraria meglio di qualsiasi persona istruita.

Si fida della scienza della letteratura?

Avverto un problema nel fatto che la teoria arranca sempre dietro la letteratura contemporanea. Mi piace piuttosto la linguistica che guarda ai testi narrativi attraverso la lingua. La questione è se qualcosa di tutto ciò possa essere importante anche per l’autore. Grazie allo studio di testi rinascimentali e ai seminari obbligatori di letteratura medioevale conosco anche le vecchie teorie e le poetiche che venivano utilizzate praticamente nella scrittura oppure i manuali di retorica. Erano pratici, mentre oggi manca un simile grado di connessione tra teorico e autore. Proprio per questo quindi apprezzo molto di più il punto di vista linguistico, perché un linguista è contemporaneamente costretto a formulare con più precisione e lavorare con materiale chiaramente determinato, mentre il teorico indaga soprattutto il contesto. Questo è, penso, generalmente il destino di tutte le scienze contemporanee, anche della matematica, che si sono sviluppate in una direzione completamente diversa. Accoglierei positivamente se ci si riuscisse ad avvicinare anche alle condizioni della Prima repubblica, quando tutti si conoscevano reciprocamente e scrivevano l’uno dell’altro. Era fantastico.

Lei insegna inglese in una scuola superiore. Nella prassi questo significa grammatica e vocaboli. Ciò nonostante forse ha idea di come i suoi alunni maturano anche altre idee, magari proprio sulla letteratura. Come si presenta la gioventù contemporanea attraverso il prisma dell’insegnante-intellettuale?

Ho esperienza anche con l’insegnamento in Inghilterra, anche lì nella scuola superiore, e penso che i giovani studenti cechi di oggi siano identici a quelli britannici. Penso che qui regni una specie di illusione ottica a causa del paragone con la situazione prima della rivoluzione, quando sembrava che “l’amore per la conoscenza” fosse semplicemente dato. Ma allora non c’era nessun altro concorrente all’attenzione di quei giovani. Io non sono per questo in alcun modo affranto. Naturalmente la gioventù si interessa a qualcosa di diverso rispetto a me, ma è normale. Mi sembra che alla scuola superiore ancora non si possa nemmeno essere troppo limitati.

Lei è stato in rapporti amichevoli con alcuni letterati, ad esempio Emil Hakl o Václav Kahuda. Come giudicava le loro opere, ne avete mai parlato? Che periodo era?

Jan Beneš e Petr Kratochvíl, alias Hakl e Kahuda, li ho incontrati solo dopo il mio ritorno dall’Inghilterra. È successo al Klub 8, nella birreria Na Slamníku, diretto allora da Renata Bulvová. Era magnifico, lì incontravo un sacco di persone interessanti ed è un peccato che quel club non ci sia più. Di libri non chiaccheravamo poi più di tanto, ma conoscevo naturalmente ad esempio Houština [Sottobosco] di Kahuda. È una cosa assolutamente straordinaria. È uno dei maggiori autori della letteratura ceca contemporanea. Mi dispiace che nemmeno so cosa scriva ora.

Che opinione ha del mondo letterario, eventualmente mediatico? Legge le riviste letterarie, i libri di autori contemporanei, poesie?

Li leggo e mi interessa. Non vado però spesso alle iniziative culturali, semplicemente non ne ho il tempo. Spesso mi capita in mano solo ciò che mi raccomandano gli amici che scrivono. L’ultima volta mi è piaciuto terribilmente Pavel Rejchrt, Mistr ryzího snu [Maestro del puro sogno]. Mi piace leggere anche le cose vecchie che vengono ripubblicate – adesso ad esempio sto finendo di leggere Srdce [Cuore] di Josef Kocourek. Sono stato anche a dare un occhiata alla presentazione del libro a Nová Paka, l’ha organizzata Typlt, e il maggiore contributo è stato dato dal poco visibile e forse fin troppo modesto editore e pittore Vít Ondráček da Kunštát. È stato fantastico.

Le interessa il cicaleggio critico e anche personale tra i letterati o i critici, segue ad esempio le polemiche?

Mi interessa, ma raramente lo vengo a sapere. Se non vi mantenete con la letteratura, dovete andare al lavoro alla mattina presto e, oltre a questo, vi sforzate di scrivere, perciò non resta molto tempo. Io poi per di più scrivo abbastanza lentamente. Uno può imparare a concentrarsi, ma presto scopre che se non ha la tranquillità per scrivere almeno 4 ore di seguito, allora non ha nemmeno senso cominciare. Ora mi sforzo di scrivere di nuovo ed è una lotta contro il tempo. Purtroppo non è dato in alcun modo “accelerare”. Quindi anche se c’è qualcosa di interessante, lo rimando, semplicemente perché non ho tempo.

Come descriverebbe sé stesso: ad esempio all’interno della letteratura contemporanea?

Fatico a vedermici. Non troverei un contesto per me. Attenderei di vedere che altro scriverò, quali tonalità prenderò. Sarei prudente, non vorrei rovinarmi la reputazione. È in effetti imprevedibile, sa, come verrò accolto la prossima volta,le cose possono riuscire, ma anche fallire. Come già sapevano i maestri medievali, la Fortuna è volubile e la sua ruota dal punto culminante comincia a muoversi inevitabilmente verso il basso.

In un’intervista ha detto che non vorrebbe diventare scrittore di professione perché questo la spingerebbe a scrivere in modo commerciale. Che significa esattamente essere commerciale?

Sono già abbastanza vecchio per permettere a qualcosa di rovinarmi il piacere della scrittura. E, se dovesse mantenermi, questo succederebbe. Mi darebbero fastidio anche gli obblighi, la necessità di dover scrivere un libro all’anno, perché ho firmato un contratto. L’essere commerciale rappresenta per me ciò che ci si aspetta da voi e a cui ci si sottomette. Inoltre bisogna essere consapevoli di com’è qui la politica culturale – non viviamo in Scandinavia, ma qui. Apprezzavo molto per esempio Pavel Tigrid, ai tempi del precedente regime dei vecchi amici mi prestavano di tanto in tanto i suoi saggi. Quando poi è tornato in Boemia riteneva che si sarebbe dovuto abolire il Ministero della cultura. Lui, un uomo che aveva vissuto quasi tutta la vita in Francia, nel paese con quella che è forse la più sofisticata politica culturale, con enormi sovvenzioni. Per molto tempo non sono riuscito a capirlo. Poi mi sono reso conto che si era trattato davvero di una rivoluzione. Per quanto riguarda la letteratura ceca, questa naturalmente in genere paga le conseguenze del fatto che la magnifica generazione della primavera di Praga era politicamente scomoda ed è stata imbavagliata. I comunisti poi hanno cercato di corrompere tutti gli altri letterati e con molti hanno avuto successo. E questo processo continua, in alcune persone provoca avversione e indifferenza. Come se non fosse chiaro che la cultura di uno stato totalitario è ed è stata una cosa precisa, mentre la cultura di uno stato democratico sarebbe dovuta essere diversa e affidare una nazione di dieci milioni di abitanti alla mano invisibile del mercato è semplicemente una stupidaggine. Cerco di non cadere nella disillusione, sottrae energie, e quando non ci si riesce, allora forse è meglio non parlarne.

Come giudica il sistema dei premi letterari qui da noi?

Lo considero una delle possibilità con cui promuovere la letteratura. Funziona così dappertutto ed è un bene. I nostri premi sono legati anche al modo in cui è percepita generalmente la cultura in Boemia. Senza essere almeno un po’ pessimisti, non è nemmeno possibile. So dagli amici, dei boemisti polacchi, che da loro alla consegna dei premi letterari dello stato è presente il presidente. Se uno stato avvalora la cultura, dovrebbe adeguatamente riconoscere anche i premi letterari. Non penso che il presidente polacco legga i libri premiati, ma il gesto è importante. E questo non riguarda solo la letteratura. C’è poi il premio Magnesia Litera, importante spettacolo letterario che si forza di portare la letteratura nei media. Altri importanti premi, il premio Seifert e il premio statale, sono piuttosto legati al lavoro di tutta la vita. È importante però ancora un’altra cosa. Alla scuola superiore in Inghilterra avevamo nell’ambito dell’insegnamento un fondo di denaro assicurato affinché potessimo invitare a scuola un artista interessante, ad esempio un pittore o un poeta. Egli poi assisteva per qualche mese gli studenti e insegnava loro quel che sapeva fare: scrivere poesie o dipingere. Gli studenti allora vedono che un poeta non è né un buffone né uno strano animale e in più hanno un risultato concreto: una poesia scritta da loro. Mi sembra che questo abbia un significato. I premi letterari sono solamente il livello più alto, e perciò il loro campo d’azione è assai ristretto. Forse con il tempo da noi comparirà qualcosa di simile a ciò che ho sperimentato in Gran Bretagna. Questo secondo livello sta ancora aspettando di essere occupato.

Che tipo di prosa preferisce, come lettore?

Quella che cerca di descrivere la vita come si riflette anche nella mia esperienza. Sono testi che non considerano la forma come qualcosa di dato, ma cercano di lavorare con essa. Sotto questo aspetto apprezzo ad esempio i testi di Karel Milota, Thomas Pynchon, Josef Škvorecký, Joaquim Maria Machado de Assis, Milan Kundera, Jaroslav Hašek. Poi mi piacciono i testi degli scrittori che scrivono con precisione, specialmente Jan Balabán o Raymond Carver. L’anno scorso è uscita, dopo circa 120 anni, una nuova edizione dei drammi del mio beniamino Thomas Middleton in due volumi, lo si aspettava da quasi vent’anni, non vedo l’ora di comprarlo. Dunque il rinascimento inglese e un po’ anche la letteratura medievale li ho sempre in testa.

Come le sembra la scena letteraria ceca in confronto a quella inglese? Le differenze sono ovviamente legate ad una diversa evoluzione storica, ma mi interessa piuttosto quella politica: mentalità, accoglienza del pubblico non letterario…

L’accoglienza di tutto il pubblico è difficile da descrivere, perché in Gran Bretagna la stratificazione sociale funziona davvero e la letteratura in questo schema appartiene solo agli strati medi e alti. Per le persone dell’Europa centrale questa non sarebbe una cosa facilmente accettabile o che potrebbe piacere loro particolarmente, ma in questa società l’accoglienza della letteratura da parte di chi si trova al fuori degli strati medi e alti è semplicemente una rarità. E bisogna naturalmente tenere in conto anche la loro divisione tra conservatori e sinistra liberale. Un tema importante che appare regolarmente nella letteratura inglese, è il problema della fisicità e dell’erotismo contro il pudore e la morale ipocrita. In sintesi si vuole intendere che i risultati della rivoluzione puritana di Oliver Cromwell sono per un uomo dell’Europa centrale ancora visibili. Ha un ruolo specifico nella letteratura britannica l’India e tutto ciò che la riguarda. Il rapporto con l’India per loro non è esotico, ma reale. Io stesso ho vissuto ad esempio qualche anno a Londra in una casa con un vecchio signore che aveva lavorato lì per vent’anni. Quindi anche il successo letterario degli scrittori che hanno con l’India qualche legame personale è in effetti abbastanza naturale. In Gran Bretagna il rispetto per la cultura esiste già da moltissimo tempo. Oggi sembra che gli inglesi con essa non abbiano alcun problema, ma ancora Jonathan Swift si lamentava in una lettera: “Viviamo proprio ai margini dell’Europa, a nessuno importa cosa scriviamo qui, e quasi nessuno tra i letterati parla la nostra lingua”. Però è una situazione incomparabile con la nostra, la Gran Bretagna con la Svizzera e, penso, la Svezia appartiene ai pochi paesi in Europa che hanno mille anni di sviluppo più o meno ininterrotto senza interventi esterni. Non si può in nessun modo paragonarle all’Europa centrale! Ma quando si guarda la letteratura ceca degli ultimi cento anni, quando in Boemia è stato possibile respirare almeno un po’ – prenda ad esempio i decenni a partire all’inizio dello scorso secolo: Otokar Březina, Hašek, Ladislav Klíma… Penso che la letteratura ceca non abbia più da tempo nulla di cui vergognarsi.

(L’intervista è stata pubblicata in ceco in “Tvar”, 6, 2009. Traduzione a cura di Yvonne Raymann, Giovanna Siviero e Diego Cavallaro, realizzata nell’ambito del corso di Lingua ceca e slovacca III, Università di Padova, 2015-2016)

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