Nata da una residenza romana, da un cortocircuito costruttivo che coniuga su una stessa piattaforma visiva alcuni studi intrapresi in Italia sulla figura di Santa Cecilia e una serie di analisi linguistiche sull’estetica boliviana chojcho, Caiman, la prima personale di Narda Zapata (La Paz, 1981) presenta un’atmosfera ibrida che fa i conti con la grammatica culturale delle nuove società capitalistiche sorte dalle ceneri del colonialismo.
Caiman, nome di una bevanda superalcolica diffusa in Bolivia e utilizzata dalla gente del luogo come nettare di gioia per celebrare il culto di Santa Cecilia – «la protettrice della musica […] entrata nell’immaginario e nella cultura di tutti i paesi che hanno avuto direttamente o indirettamente un’influenza cristiana» –, diventa per l’artista emblema di una trasformazione, di una impurità che investe il paesaggio e lo traveste con una patina che va oltre i confini del kitsch. Per esprimere questo brusio, questo soqquadro, questa condizione babelica, Zapata concepisce la mostra come un ambiente, come uno spazio quotidiano, come una dimora il cui arredamento evidenzia un gusto ambiguo, una eccentricità contagiosa che immerge così lo spettatore nel clima del chojcho, di un fenomeno contemporaneo nato in Bolivia (es algo muy boliviano, suggerisce José Ballivián) per designare un cocktail estetico esplosivo che, se da una parte rappresenta l’etiqueta peyorativa di modelli nati dalla società di massa e dalla sottocultura della megalopoli, dall’altra si smarca dalla negatività – propria del cholo («una mezcla racial/cultural de rasgos indi´genas, hispa´nicos y occidentales») – per mostrare un linguaggio allucinante e surreale, producto del mestizaje culturale.
Partendo appunto da alcune ricognizioni agiografiche e da una serrata indagine iconografica riguardante la martire cristiana, ma anche dalla vita burrascosa di Beatrice Cenci (che rappresenta, per l’artista, una donna simbolo di integrità) e da una pratica creola che prende sempre più piede nel panorama visivo – emotivo e sentimentale – della Bolivia, Narda Zapata concepisce un viaggio nelle strutture profonde dell’antropologia per delineare una forma di conoscenza alternativa, un’immagine complessiva che rispecchia appieno gli effetti e la genesi di una evoluzione sociale (l’artista sceglie infatti di «lavorare nell’ambito della pittura sovrapponendo diverse tecniche che rafforzano l’idea di un barocco esasperato e molto esagerato, con tendenza post-pop»), di una civiltà che, per dirla con Greenberg, «produce contemporaneamente due cose del tutto diverse come una poesia di T.S. Eliot e una canzoncina di Tin Pan Alley, oppure un dipinto di Braque e la copertina del Saturday Evening Post».
Un trittico composto dal ritratto di Stendhal (che nelle sue Chroniques Italiennes del 1829 racconta la veridica storia di Beatrice Cenci) e due tele stampate ad effetto ricamo con paillette, una serie di bandierine che restituiscono l’effetto dei prestes (le feste organizzate, in Bolivia, per onorare Santa Cecilia), una scultura in cartapesta che delinea l’etichetta dell’Alcol Caiman e il disegno di un musicista boliviano strappato ad una delle tante orchestre popolari che sfilano per le strade di Sucre, La Paz o Santa Cruz il 22 novembre. Sono soltanto alcuni degli espedienti proposti da Zapata per delineare uno stile incandescente il cui volto mostra l’energia di un mixaggio – in cui confluiscono formule spagnole, brani indigeni e declinazioni culturali generati dai traumi della mondializzazione – che si concentra per dar luogo ad uno scenario complesso, ad una scena estetica che rispecchia (e non può non farlo) il «sogno di evasione di una civiltà che lavora» (Elias).
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L'autore
- Antonello Tolve è il direttore responsabile di Insula europea (http://www.insulaeuropea.eu/antonello-tolve/)
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