Avvicinarsi alla poesia di Alessandro Ricci (Garessio 1943 – Roma 2004), non è mai operazione che vada disgiunta dallo stupore dovuto al constatare come un’opera di tale singolarità e complessità e altezza di risultati sia rimasta – e continui a rimanere – non solo “isolata”, ma pressoché sconosciuta anche alla critica più seria. È uno stupore che si coglie tra le righe del decisivo saggio con cui Stefano Agosti accompagna una scelta antologica, da lui caldeggiata e curata, del poeta piemontese: I colloqui di Elpinti, con un saggio di Stefano Agosti, Torino, Coup d’idée, Edizioni d’arte di Enrica Dorna, 2015, pp. 91, – 14,00. Una scelta che nella vasta – ma non vastissima – produzione di Ricci (ancora parzialmente inedita o edita in collane ormai esaurite e/o di limitatissima circolazione) individua il nucleo più incisivo e originale nei testi in cui a prevalere è una tematica storica centrata sulla fine della civiltà classica, e sul senso di allarme e di mistero che l’accompagna. Ché, se di isolamento di Ricci si può parlare, esso è da intendersi solo all’interno di un contesto italiano. Non pochi sono infatti i fili che legano il poeta di Garessio ad altre e illustri tradizioni letterarie e poetiche. E Agosti fa i nomi di Housman, di Kavafis, di Yeats, cui mi permetterei di aggiungere quelli di Borges e del grande polacco Zbigniew Herbert.
C’è, nella poesia di Alessandro Ricci, una fascinazione della fine che aveva còlto uno dei primi e suoi più lucidi lettori: il poeta Gianfranco Palmery che ne ospitò negli anni ottanta i versi sulla rivista “Arsenale” e successivamente in bellissime pubblicazioni del suo Labirinto (I cavalli del nemico, 2004 ; L’arpa romana, 2008 ; L’editto finale, 2014, edizioni postume curate dall’amico poeta Francesco Dalessandro).
Il mondo che Ricci ci fa presente nei suoi testi vive il suo splendido momento tra premonizione e minaccia, e sono i barbari che premono sul limes romano fin dallo scorcio della Repubblica (magnifica è la vittoria di Mario, un frammento di luce così forte e inatteso); i cristiani che più a fondo dei primi finiranno per sovvertire, insieme a un equilibrio e una linea di bellezza millenaria, la stessa idea del mondo; “le coorti nùmide” che irrompono in un orizzonte di polvere, simili alle antilopi della savana, nel ricordo dello schiavo sudanese. E vale senz’altro la pena di citare il bellissimo incipit di questo componimento, in cui è un ricordo dell’Albatros: “Lo schiavo sudanese del porto / di Massilia, sfinito dai pesi / e dalla sferza, vede calare / dall’oneraria un mazzo convulso / di ali e becchi nella rete, / e sono atrocemente, / fra le risate della ciurma, / ibis rossi della Nubia. // Per gli eleganti horti dei capi / trascinati fin qui.”
Ma è sulle due figure di Giuliano e di Ammiano Marcellino, sulla prima in particolare, che il discorso di Ricci si fa più urgente, e acquista tutta la sua forza e il suo rilievo drammatico. Il tema è articolato in più componimenti che partendo da un paesaggio prima della battaglia, sulle prime luci del giorno, conducono alla grande scena della morte dell’imperatore filosofo, in seguito alle ferite riportate sul campo. Di molto fascino ed efficacia è l’alternarsi in queste sequenze del discorso indiretto libero del protagonista con il discorso diretto e con la terza persona, in giustapposizioni che riconducono al mistero ultimo di un’avventura umana irripetibile. Ha qualcosa di cinematografico, nel taglio delle immagini, la scena della morte dell’imperatore sul lettino da campo, con il grande specchio che più non lo riflette. Viene in mente la fine di Giovanni dalle Bande Nere, dopo la terribile amputazione, nel Mestiere delle armi di Ermanno Olmi, un film non per caso centrato sull’idea di destino. “Hanno issato uno specchio / enorme che mi esclude, / privo solo di me, per rispetto / di me? Forse / ho ben meritato / di loro, e temono ch’io guardi / il mio corpo trafitto? / Ma no, sento che l’hanno coperto / di soffice lana, sono / semplicemente cieco, e se le pupille / sbiadiscono in albume, come si dice / che accada, il cuore crescendo / le sostituisce, fonde / memoria e invenzione, tutti / i granelli della clessidra, / dipinge gli aspetti / di uomini e cose, liscia / i contorni, quasi / li tocca.”
Siamo nel cuore del mondo fantastico morale di Alessandro Ricci, laddove la lente della ”aspettualità”, qui intesa come “procedura di attualizzazione della temporalità storica” e utilizzata da Stefano Agosti quale strumento di precisione nella sua indagine, dà rilievo agli èsiti non comuni di questa poesia, e fa effrazione a un silenzio troppo a lungo protratto.
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L'autore
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Marco Vitale (Napoli 1958) vive a Milano dove al lavoro in biblioteca unisce la traduzione letteraria e le collaborazioni editoriali. Tra le sue traduzioni le Lettere portoghesi, Bur 1995, Gaspard de la Nuit di Aloysius Bertrand, Bur 2001, Stanze della notte e del desiderio di Jean-Yves Masson, Jaca Book 2008, Miseria della Cabilia di Albert Camus, Nino Aragno Editore 2011. La sua poesia è raccolta nel volume Gli anni (Nino Aragno Editore 2018, premio Luciana Notari e premio Dino Campana 2019, premio internazionale Gradiva 2020) e comprende cinque volumi di versi.
È stato tradotto in tedesco da Maja Pflug (Ein Winter, Josef Weiss Editore, Mendrisio 2008) e in inglese da Barbara Carle (Emblems of Sleep, Gradiva, New York 2020). Collabora a “Cenobio”, a “Poesia”, a “Succedeoggi” e fa parte della redazione delle Edizioni di poesia Il Labirinto.
(foto di Dino Ignani)
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