Ilaria de Seta insegna nel Département de Langues et Littérature Françaises et Romanes, Université de Liège. Ha precedentemente svolto attività di insegnamento e ricerca presso University College Cork. Si è formata all’Università di Napoli Federico II. Le sue ricerche vertono sulla parabola intellettuale di Giuseppe Antonio Borgese e sulla rappresentazione dello spazio nel romanzo moderno e contemporaneo – Manzoni, Nievo, De Roberto, Pirandello, Tozzi, Svevo, Tomasi di Lampedusa.
Il presente testo è stato scritto per l’incontro con Carmine Abate all’Istituto Italiano di Cultura di Bruxelles diretto da Paolo Luigi Grossi, svoltosi il 20 novembre 2015 in occasione dell’uscita del romanzo “La felicità dell’attesa”.
Ho iniziato a leggere Carmine Abate alcuni anni fa e ho trovato i suoi romanzi così avvincenti che per qualche tempo non ho letto altro e poi, da buona emigrante, a ogni ritorno in patria (vedete che queste parole “emigrante” e “patria” non sono scelte a caso) ne prendevo uno nuovo. Ha all’attivo tredici pubblicazioni, poesie, racconti e romanzi. Ha ottenuto numerosi premi letterari (Tropea, Alvaro, Napoli, Campiello) e un grande successo di pubblico. È stato tradotto in tedesco, francese, inglese, olandese, albanese, greco, portoghese, giapponese etc.
Mi sono detta che potevo condividere il piacere della lettura e lo ho inserito in un corso universitario, un seminario per gli studenti del master sulle dinamiche familiari e lo spazio domestico. Carmine Abate era l’autore più recente (insieme a De Roberto, Pirandello, Rea e Fante) con i temi della famiglia, patria, paternità, ritorno. Mi ero soffermata in particolare su due racconti della raccolta Il Muro dei Muri: “L”idolo lontano lontano”, in cui il protagonista nel ruolo del figlio racconta la partenza del padre per la Francia e poi per la Germania. L”imperfetto quasi fiabesco incipitario “Quando ero bambino”, cede il posto al passato remoto del giorno della partenza di soli uomini, che lasciano al paese mogli e figli, evento traumatico che si ripete per una nuova meta e poi al presente storico della routine “quando torna papà” che ne sottolinea l’assenza. Una volta cresciuto e laureato il figlio tenta di emulare il suo idolo che lo rimanda a casa. Perché tanti sacrifici per vedere il proprio figlio soffrire? Il secondo racconto è “Nuotare nuotare”. Questa volta il protagonista è un ventenne, emigrato operaio in Germania in anni più recenti, che ogni estate torna a casa. Al ritmo anaforico delle nuotate, di estate in estate tutto si ripete e rimane immutato, ma questa volta ha un segreto, una fidanzata tedesca, che, si lascia intendere, romperà il tempo ciclico introducendo il futuro.
D”altronde i libri di Abate sono stati oggetto di studio degli italianisti e linguisti fin dagli esordi, con particolare insistenza in ambito internazionale (si rimanda a www.italinemo.it per uno spoglio delle riviste di italianistica dal 2000): basti citare la monografia di Martine Bovo Romoeuf, L”epopea di Hora. La scrittura migrante di Carmine Abate, Firenze, Franco Cesati editore, 2008 e quella recentissima di Rosanna Morace, Le stagioni narrative di Carmine Abate: rapsodie di un romanzo mondo, Soveria Mannelli, Rubettino, 2014. Anche se non parla dell’emigrazione in Belgio, trovo le sue storie di migrazione pertinenti anche qui: ecco perché quando l’anno scorso mi hanno chiesto di presentare un autore italiano contemporaneo in una biblioteca della provincia di Liegi ho parlato proprio di Abate. Trasmette il dolore della migrazione ma anche la gioia di vivere tra paesi diversi.
Chi è dunque Carmine Abate? Nato in fondo allo stivale, in Calabria, a Carfizzi, in una comunità Arberesch, italo-albanese. Tappe di questa storia sono materia de Il ballo tondo.
Questa è la sua prima peculiarità: il fatto che sia cresciuto bilingue, in un territorio periferico, con una ricchezza culturale arcaica ovvero antica e complessa, cosa che restituisce nei libri attraverso le rapsodie della tradizione popolare a trasmissione orale, una rarità, e attraverso la lingua, con inserzioni lessicali, (dai toponimi, ai nomi propri di persona, ai sostantivi che indicano i ruoli familiari, al lessico che riguarda l’alimentazione). La sua prima lingua (lingua del cuore) è l’arberesh, mentre l’italiano lo ha imparato a scuola (lingua del pane).
Ha studiato all’Università di Bari. Tracce di questo periodo si trovano in Tra due mari.
È poi “emigrato” in Germania, dove ha imparato una nuova lingua nella quale, fate attenzione si tratta della terza lingua, ha pubblicato Die Germanesi una ricerca empirica socio-antropologica sull’emigrazione, sugli abitanti della propria terra emigrati in Germania, chiamati a Carfizzi i “Germanesi”, e una raccolta di racconti (in tedesco) poi tradotta come Il muro dei muri. Le sue prime pubblicazioni sono dunque in tedesco, nella terza lingua, lingua dell’altro. L’aver guardato la propria terra con gli occhi dell’altro e in modo “scientifico” (anche se antropologia e sociologia non sono scienze “dure”) ha contribuito, ci confessa, ad amarla ancor più e alla spinta narrativa.
Dirige inoltre una collana intitolata “Biblioteca emigrazione” per le edizioni Pellegrine; dove ha pubblicato un’antologia di testi letterari di emigrati italiani In questa terra altrove.
Mi pare ovvio che sia pertinente qui. Tra l’altro nella prima pagina del primo racconto del Muro dei muri il padre canta “Marina”, la canzone scritta nel 1959 da Rocco Granata, figlio di un emigrante italiano (minatore) in Belgio. Inoltre un capitolo di Il mosaico del tempo grande è ambientato a Bruxelles.
Dunque: è emigrato in Germania e ha fatto molte volte andate e ritorno, fino al momento in cui ha deciso di scegliere un luogo geografico al centro tra Italia e Germania: il Trentino, come spiega nella post-fazione di Vivere per addizione, un manifesto delle sue idee. Dovrei citarne molti passi, lascio il piacere della scoperta al lettore.
Molti titoli della sua produzione narrativa evocano un’attenzione alla dimensione dello spazio, alla geografia, al movimento, al viaggio e alla dimensione del tempo.
1987: Il muro dei muri (racconti)
1991: Il ballo tondo* (romanzo)
1996: Terre di andata (poesie)
1999: La moto di Scandenberg* (romanzo)
2002: Tra due mari (romanzo)
2004: La festa del ritorno (romanzo)
2006: Il mosaico del tempo grande* (romanzo)
2008: Gli anni veloci (romanzo)
2010: Vivere per addizione. E altri viaggi (racconti)
2012: La collina del vento (romanzo)
2012: Le stagioni di Hora (raccolta dei tre romanzi segnati da asterisco)
2013: Il bacio del pane
Oltre ai titoli possiamo considerare l’intero paratesto cioè tutto quello che si trova intorno al testo: l’indice, i titoli dei capitoli, le prefazioni, la quarta di copertina, i ringraziamenti, le epigrafi, le dediche. Penso naturalmente a Seuils di Gérard Genette.
Vediamo innanzitutto cosa si può evincere da un elemento paratestuale come la dedica, in apparenza insignificante, eccone alcune: “A Maria e ai suoi figli nati in Germania”, “A Michele, naturalmente”, “a Meike, naturalmente”, “A Michele e Christian, con l’augurio che il loro tempo, il futuro, sia grande e luminoso”, “Al mio amico Ercole Mignone e ai figli della nostra terra che non si arrendono in nessun luogo”, “A Meike più Michele, più Christian, questi viaggi che partono da lontano e arrivano ai nostri luoghi e giorni, per abbracciarvi, grato”, “a mio padre, come promesso”, “a mia madre, che mi ha insegnato il bacio del pane”.
I romanzi sono dedicati a membri della famiglia (dell’autore); perciò con un legame familiare in rilievo: orizzontale (la moglie) o verticale (i figli o i genitori). Dunque nel presente, o in avanti verso il futuro (la Children Land, ovvero la terra dei figli), o infine indietro verso il passato (la Patria, la terra dove sono sepolti i padri). Tutto questo si evince dalle dediche e i romanzi e racconti di Abate sono testi narrativi in cui l’identità dei personaggi è principalmente basata sul ruolo familiare inserito in un contesto generazionale.
Inoltre, nelle dediche, ritroviamo le parole “tempo”, “luogo” e “viaggi”, e infatti le dimensioni del tempo e dello spazio in Abate sono enfatizzate e diventano dei veri e propri temi. C’è anche una corrispondenza, un dialogo intratestuale, un gioco tra il titolo e la dedica. Basti pensare a Vivere per Addizione (il titolo), con dedica a “Meike più Michele” e a Il mosaico del tempo grande, con dedica “A Michele e Christian, con l’augurio che il loro tempo, il futuro, sia grande e luminoso”. Infine, last but not least, le dediche sono spesso multilingue, in italiano, arberech e tedesco (che qui non ho riprodotto) e di queste tre realtà linguistiche e culturali i testi di Abate parlano, in italiano ma con inserzioni multilingue, arberesh, tedesco (e nell’ultimo inglese).
Se passiamo poi all’indice la ricchezza di informazioni è esponenziale: ad esempio il lessico utilizzato nei titoli dei capitoli che è quello del viaggio, del tempo, dei luoghi; il lessico ricorrente crea un discorso intertestuale, anche nel paratesto, ribadendo la coerenza del corpus.
Nel paratesto – e in particolare in prologhi, epiloghi e note finali – l’autore (e non il narratore) si rivolge direttamente al lettore, selezionando implicitamente un pubblico, e dopo aver instaurato un patto di realtà (penso adesso a Philippe Lejeune, Le pacte autobiographique) spiega il melange di finzione e realtà. Anche in questi testi il piacere per il lettore è immutato, forse accresciuto dalla curiosità.
Ad esempio nella nota finale di >Gli anni veloci c’è la spiegazione di elementi reali nella finzione del romanzo. Due cantanti, Rino Gaetano e Lucio Battisti, e un atleta, Pietro Mennea. In questo caso l’appello al lettore è fatto su un registro diverso, un ammiccare su questioni che il lettore riconosce un po’ come nel nuovo romanzo dove c’è un personaggio proveniente dalla pop culture.
Nella nota a chiusura de Il ballo tondo, l’autore ci spiega il perché delle rapsodie: “Storie tutta polpa, veloci e leggere, piene di metafore, semplici ma efficaci”. E ringrazia coloro che hanno fatto studi sulla cultura arberesh.
A quanto pare la lingua arberesh non è parte integrante dei programmi scolastici se non sotto forma di progetti pilota, dunque lasciata all’iniziativa degli insegnanti volenterosi, ma a Carfizzi è ancora parlata, c’è la consapevolezza da parte degli anziani del paese che perdere la lingua vorrebbe dire perdere una parte di sé.
Tornando all’indice possiamo ancora fare delle osservazioni. Si evince la struttura circolare in cui inizio e fine riportano al presente dell’autore. Mi spiego: in Abate c’è un’enfasi marcata sull’inizio e sulla fine, un’attenzione da ars oratoria a incipit ed explicit narrativi, ad esempio con i capitoli chiamati “Prima di tutto” e “Dopo la fine”; la stessa enfasi si ripropone nell’apparato paratestuale che incornicia il testo, le suddette premesse ed epiloghi, dando luogo, ripeto, a un corpus unitario, in cui tale struttura, con variazioni, si riproduce.
L”enfasi è particolarmente sulla fine più volte indicata come provvisoria, una “sosta”, più che una fine. Ad esempio in Vivere per addizione e altri viaggi c’è un “Epilogo provvisorio”, cosa che suggerisce al lettore di attendersi una continuazione, come a dire, la storia non finisce qui.
Se il paratesto è il luogo in cui l’autore può rivolgersi direttamente al lettore, rompendo le barriere testuali, in Abate l’apparato paratestuale particolarmente consistente indica la volontà di dialogo con il lettore.
Un ultimo elemento paratestuale; sulla quarta di copertina c’è la bio-bibliografia. Negli ultimi romanzi è leggermente diversa: nelle prime copertine c’era più enfasi sulla terra di provenienza, nelle ultime maggiori dettagli sulle successive tappe geografiche. Sarà una semplice variante, o sarà “la bilancia della vita, che per comodità pende sempre dalla parte del presente”, certo è che la copertina è l’elemento paratestuale di maggior competenza editoriale.
Veniamo dunque all’ultimo romanzo, fresco di stampa. La dedica ai figli, con incoraggiamento a rimanere o partire secondo la propria scelta, è in posizione finale e mi domando se anche in questo caso sia una scelta dell’autore o un suggerimento dell’editore. Abate conferma la massima autonomia in tutte le scelte. La materia narrativa corposa è divisa in oltre 50 capitoli, in cui già dai titoli si intuisce l’alternanza tra il presente dichiarato “oggi” e un’altra dimensione temporale, il passato, che però è trattato come un altro presente. Filo rosso è la voce narrante che dice io, cioè una narrazione in prima persona, Carmine Leto a noi contemporaneo (lo capiamo non dalle date ma da elementi della più recente contemporaneità: il Whats App), che racconta le vicende passate (questa volta con ancoraggi temporali precisi, sotto forma di date ed eventi storici) del padre Jonathan, detto Jon, che nel presente è in fin di vita. Insomma è un romanzo sulla figura paterna, complessa, misteriosa, infine compresa e amata. L’amore extraconiugale è giustificato dall’ossessivo tentativo di elaborare due lutti, la morte violenta del padre (nonno del protagonista) e del fratello, vittima di un incidente sul lavoro, insomma della società motivo per cui il protagonista è attratto dai discorsi di Scandenberg, che in questo romanzo è un rivoluzionario.
C’è verso la fine una identificazione, confusione, ibridazione tra le figure del padre e del figlio: “Gli occhi smarriti che scorrevo di sghimbescio nello specchietto retrovisore e non capivo se fossero i miei o di mio padre o di entrambi” (p. 285).
Dicevo l”alternanza dei tempi: la narrazione è classicamente al passato remoto per gli eventi relativi alla migrazione, stavolta in America e non in Germania come in altri romanzi, e al presente per la dimensione atemporale in cui è avvolta Hora, il paradiso perduto (ma non troppo) calabrese.
Se già altre volte ho pensato a John Fante, questa volta, vista l”America, più che mai. Il motivo è il trattamento della famiglia, il luogo della tradizione con personaggi i cui ruoli sono principalmente familiari, ovvero la loro identità è costruita in base al rapporto rispetto al protagonista, un alter ego dell’autore, giovane desideroso di affermarsi nel presente della terra di emigrazione senza rimpianti. Una madre, una sorella, un fratello, (in questo caso uno Ntoni verghiano alla rovescia che va incontro alla morte perché non cavalca la scia della modernizzazione, resta legato al passato e alla propria terra). Ma Carmine Abate parla anche degli andirivieni con in primo piano la terra d”origine.
Ci sono inserzioni di lettere, missive dei migranti, infarcite di espressioni dilettali e errori ortografici, lessicali, sintattici; come delle istantanee per ricordarci che cosa storicamente sia stata l’emigrazione massiccia dall’Italia all’inizio del Novecento e poi di nuovo dopo la seconda guerra mondiale. Risaltano e in qualche modo stridono con la finzione romanzesca, perché costituiscono uno spaccato (una voragine direi) della realtà contadina, con toni più duri, capacità espressive inadeguate degli scriventi, sofferenza palpabile (come in tutte le fonti primarie sull’emigrazione). Fa eco alle lettere del passato di Zia Franceschina ritrovate nel baule (che sembrano vere) la confessione dello stesso personaggio nel presente al camposanto di Hora, un bellissimo monologo in indiretto libero, reso con italiano regionale e dialettale (pp. 278- 281) che fa venire in mente Casa d”altri.
L”impressione, all”inizio della lettura del romanzo – svoltasi come sempre quando leggo Abate molto rapidamente, per l”ingordigia che vince sul proposito di centellinare il piacere – è stata quella di ritrovare gli ingredienti noti, quasi che fosse un gioco tra l’autore e il previsto lettore ben avvezzo alla materia; come se dopo un pasto elaborato si porgesse ai commensali (il pubblico) gli ingredienti uno alla volta, come una sorta di prova di fedeltà: se ami l’insieme devi amare anche le singole componenti che ora ti presento senza elaborazioni (la lingua – si potrebbe fare un glossario, con i nivurelli e i cannarozzi, crozza, spertizzo, cioto, micidianti etc. le storie d’amore nella cui narrazione Abate eccelle, il paese Hora, in cui il lettore “seriale” di Abate si sente ormai perfettamente a casa). Ingredienti nuovi sono l’America e Marylin Monroe, sconfiniamo qui nel romanzo storico con ingrediente pop, come in Gli anni veloci con Pietro Mennea e Rino Gaetano.
Viene anche in mente la novella di Pirandello L”altro figlio che narra la storia di una madre vedova, anziana e totalmente analfabeta, che aspetta il ritorno dei figli emigrati in America. C’è inoltre implicitamente Verga in questo romanzo, non solo per contrasto all’ideologia dell’ostrica, come si diceva prima, ma anche per il tema delle miniere, che in Abate come in Verga sono nella terra d’origine (e non nel Belgio dell’emigrazione come per tanti italiani). Il fratello del protagonista Carmine, che si chiama Leonardo, ne è l’alter ego rimasto nel passato e la sua morte è annunciata da un sogno (anzi un doppio sogno premonitore); la superstizione del mondo ancestrale avvolge e stempera la modernità razionale (incarnata perfettamente dall’America). Ma la transizione tra i due mondi, la Calabria e l’America, il presente e il passato, non è scontata né facile: “Le sue comode scarpe americane erano a disagio sulla terra battuta” di Hora, della Calabria.
Abate dissemina qua e là piccole gocce di saggezza, semplice ed efficace, e perfettamente a tono con la narrazione: “Non sempre è possibile capire la vita, mia cara, né serve spiegarla, bisogna raccontarla e basta”. La saggezza è di solito dispensata dai patriarchi, il nonno, il padre o un altra figura maschile di riferimento: in questo caso colui che incarna l’american dream, Andy Varipapa, campione mondiale di bowling, guida per Jon e poi anche per il più giovane Carmine: “La vita vera è più bella di quella sognata. Dipende tutto da noi, dalla nostra capacità di affrontarla di petto e dalla pazienza di saper attendere il momento giusto in cui gli ostacoli vengono fatti cadere come in i birilli”, p. 199. È Lui a fornire la chiave di lettura del titolo, a pag. 294, sull’importanza della preparazione del lancio della boccia, dare il massimo per raggiungere l”obiettivo.
C’è in questo romanzo forse ancor più che negli altri, una chiara distinzione di ruoli tra personaggi maschili e femminili, sempre nell’ottica della complementarità. I proseliti di gender studies e women studies avrebbero di che parlare. Le figure femminili incarnano le polarità: la modernità (la sorella-figlia e Marylin) o la tradizione (la madre-moglie); con due personaggi che le sintetizzano: la matriarca americana, Shirley, mulatta che esce da tutti gli schemi e la diciannovenne Lucy, una nipotina d’oro, che mette insieme il passato e il presente il qui e l’altrove. Insomma una variante vecchia e fanciulla della topica romanza di Curtius. I personaggi maschili rispondono a un’altra logica, sono degli ibridi, come i due protagonisti in terza e in prima persona, Jon e Carmine, quando si parla di presente parallelo e di nemesi dei luoghi in cui si ritorna dopo l’abbandono, p. 233.
Con la morte del fratello di Jon che ne segna la fine della giovinezza e poi con il ritrovamento di una lettera nel baule, con un climax al centro del romanzo, si crea un corto-circuito spazio-temporale (un cronotopo). Il tempo è ciclico e le generazioni con nomi che si ripetono, Carmine, prende il nome del nonno e alla morte di Leonardo la sorella chiama il figlio come lo zio. Inoltre Franceschina, la sorella di Jon (simile a Lina, sorella di Carmine) si dice essere invecchiata più che per gli anni per la distanza (fisica da Hora); lei è andata nel nuovo mondo, addirittura in Australia. Lucy fa con il cellulare una foto dei vecchi fratello e sorella addormentati l’uno accanto all’altro a Hora, rappresentando lo sguardo del presente sul passato (senza condanna né dell’uno né dell’altro). C’è un’ammirevole imparzialità del narratore, che non parteggia per nessuna delle dimensioni, se non attraverso un sentimento nostalgico per Hora.
Oltre la metà del romanzo con la dichiarazione: “Fui chiamato Carmine come il padre di mio padre” (p. 217) abbiamo l”identificazione della voce narrante con il protagonista pseudo-autobiografico – laureato, professionista, ma anche lui costretto a emigrare, il quadro è lucido e realistico, verso la Germania – perfettamente inserito nel sistema ciclico delle generazioni.
E infatti anche in questo romanzo polifonico c’è una struttura circolare e a cornice: un “prima dell’inizio”, un “prima della fine” e poi anche un “epilogo provvisorio”. L”inizio e la fine ribadiscono a livello di cornice e di paratesto la concezione ciclica del tempo presente nella narrativa di Abate.
Il fatto che non si proceda lungo una linea retta ma che la fine riporti all’inizio contribuisce, a dispetto degli eventi anche drammatici rappresentati, alla solarità dei romanzi di Abate. Deve essere il frutto del “vivere per addizione” o forse un dono ricevuto dall’antica tradizione arberesh.
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L'autore
- Ilaria de Seta si è formata all’Università di Napoli Federico II, ha perfezionato gli studi all’University College Cork e insegnato all’Université de Liège. Attualmente vive a Bruxelles, è Research Associate alla Katholieke Universteit Leuven e Freelance Editor presso la casa editrice Peter Lang. Ha dedicato numerosi studi alla rappresentazione dello spazio nella narrativa otto-novecenetesca e alla parabola intellettuale di Giuseppe Antonio Borgese. Ultimamente si sta concentrando sull'opera di Federigo Tozzi e sulla rappresentazione di medici e pazienti nella letteratura europea moderna e contemporanea.
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