Un giorno, in occasione dell’inaugurazione della biblioteca di una scuola pubblica de La Paz ospitata in una ex fabbrica di proprietà di un cittadino italiano e intitolata a Cristoforo Colombo, un giornalista televisivo boliviano mi chiese come mai fossi presente, in qualità di ambasciatore italiano, e perché l’ambasciata sostenesse quell’iniziativa. Risposi che la cooperazione non può e non deve limitarsi all’ambito materiale: se insegnate oggi a un bambino a leggere una favola o una poesia, o addirittura a scriverle, domani avrete ospedali, acquedotti, ponti.
Il tema dell’identità di un popolo è molto delicato e si presta a letture spesso configgenti tra loro. Personalmente tendo a diffidare dell’eccessiva enfasi data al tema. Appartengo a coloro che preferiscono semmai sottolineare i valori universali della cultura: nel bellissimo saggio L’invenzione delle razze (Milano, Bompiani, 2006), Guido Barbujani ricorda come gli uomini siano tutti imparentati tra loro, il più delle volte addirittura nello spazio di pochi secoli, e di come scientificamente siano molti di più gli elementi che ci uniscano rispetto a quelli che ci differenziano. Del resto già Luigi Cavalli Sforza (Chi siamo. La storia della diversità umana, Milano, Mondadori, 1994; e L’evoluzione della cultura, Torino, Codice, 2010), grande genetista italiano, aveva dimostrato l’inesistenza delle razze e l’appartenenza dell’umanità a un unico patrimonio genetico condiviso.
Sul piano più squisitamente legato alla creazione artistica, non v’è dubbio che da millenni l’uomo racconti e raffiguri, con i più diversi mezzi di espressione, una serie di modelli di narrazione che si ripetono ad ogni latitudine e in ogni tempo, per fortuna con un’infinità di variabili dettate dall’immaginazione, ma che comunque rispondono a bisogni, stimoli, sentimenti, desideri e paure universali.
Il viaggio di Odisseo, il suo incontro con mondi sconosciuti, il ritorno a casa dopo mille peripezie, riscoprendosi uguale ma diverso dall’eroe che era partito vent’anni prima per la guerra, trova un’eco almeno parziale nel ciclo di Gilgamesh e si ripete poi con molte varianti nei secoli seguenti, dall’Eneide al Milione, dalla Divina Commedia all’Orlando Furioso e ai Viaggi di Gulliver, dalle Avventure di Arthur Gordon Pym all’Ulysses di Joyce. Allo stesso modo, Romeo e Giulietta di Shakespeare è preceduto dal canto V dell’Inferno, dalle novelle di Boccaccio, Masuccio Salernitano e Matteo Bandello, e si ripete poi nel tempo fino a West Side Story di Leonard Bernstein. E gli esempi potrebbero proseguire oltre.
La cultura insomma non si trasmette geneticamente, non è patrimonio immutabile di un gruppo di persone definite da legami di lingua, parentela e territorio, ma si costruisce con l’esperienza individuale e irripetibile di ciascuno di noi, come commenta Maurizio Bettini in un altro bel libro, Contro le radici. Tradizione, identità, memoria (Bologna, Il Mulino, 2011).
Tutto ciò non vuol dire in alcun modo che si debba rinunciare a valorizzare il proprio patrimonio culturale: l’importante è comprendere che tale patrimonio non è frutto di un’appartenenza cristallizzata una volta per tutte ma è il risultato di un calderone vitale e fertile. Nel caso dell’Italia, dobbiamo essere coscienti della forza probabilmente unica della nostra cultura, che è tale pur nella – o grazie alla – varietà di elementi che nel corso dei millenni hanno contribuito alla sua formazione: latini, liguri, celti e altri popoli preromani, e poi fenici, cartaginesi, etruschi, romani, bizantini, goti, longobardi, angioini, aragonesi, normanni, saraceni, austriaci, e ancora le nuove migrazioni dal secondo dopoguerra ad oggi.
In fondo poche cose come la latinità sono associate dagli italiani alle proprie radici: eppure noi consideriamo romani, senza tentennamenti, tanti poeti, giuristi o imperatori che erano nati in Illiria, in Iberia o in Africa, ma lo facciamo correttamente, perché essi entrarono a far parte dell’incipiente cultura italiana, portandovi propri valori e proprie particolarità ma depositandole in un contesto già attivo e ricco.
La cultura italiana, così intesa, eternamente in fieri ma con un patrimonio consolidato unico al mondo, è una ricchezza che non può essere sprecata. Va difesa, tutelata, preservata, ma anche utilizzata con intelligenza, combinando la forza della tradizione con nuove procedure, con azioni innovative, rispettose di quel patrimonio ma coraggiose.
E nell’ambito della cultura, è evidente che la lingua sia uno degli elementi di maggior pregio: perché non è solo parte di quel patrimonio, ma è lo strumento naturale per trasmetterne la conoscenza. Storicamente una lingua è forte quando il popolo che la parla dispone di potere militare ed economico: è stato così per il latino, poi per il francese e per lo spagnolo, per l’arabo e per l’inglese. Così è già, a ancor più sarà nel futuro, per il cinese.
L’italiano costituisce un’eccezione quasi unica nella storia (cfr. per tutti C. Giovanardi – P. Trifone, L’italiano nel mondo, Roma, Carocci, 2012). La sua diffusione si deve essenzialmente a due fattori: l’emigrazione, che è stata un’espansione pacifica e fatta da persone povere, deboli e disarmate, e la cultura. L’uso universale dell’italiano nei termini tecnici legati alla musica, all’architettura, all’arte e al design è la dimostrazione di quanto la creatività italiana abbia permeato altre culture, convincendole con l’efficacia e la qualità della propria produzione. Se l’opera lirica nasce dal melodramma italiano, è inevitabile che i librettisti siano inizialmente quasi solo italiani (si pensi a che ruolo abbia avuto Lorenzo Da Ponte per Mozart) e che dopo, quando sono anche di altre nazionalità, continuino a usare la nostra lingua. Se il pianoforte è stato inventato nel XVII secolo dal padovano Bartolomeo Cristofori e se la produzione dei migliori violini del mondo è concentrata in pochi chilometri quadrati a Cremona (Stradivari, Guarneri), è ovvio che termini come pianoforte, sottovoce, allegro ma non troppo, andante e via di seguito restino nel vocabolario di altre lingue, senza trovare sostituti.
È perciò corretto dire che la diffusione e la promozione della lingua italiana costituiscano per il nostro paese non soltanto un’azione di politica culturale, ma anche di politica commerciale, di tutela e sviluppo degli investimenti italiani all’estero, ed in ultima analisi di politica estera stricto sensu. Perfino la cooperazione allo sviluppo può beneficiare di tale azione: insegnando la lingua italiana in un paese in via di sviluppo non si fa solo un’opera di promozione dei nostri interessi culturali ed economici presso quel paese, ma si offrono anche strumenti perché cittadini di quel paese possano accedere a studi avanzati e lavorare in seguito per lo sviluppo della loro patria. Che è appunto dire con parole più tecniche e complesse quanto cercai di riassumere e rendere più bello davanti alle telecamere boliviane: insegnate oggi a un bambino a leggere favole e poesie e domani avrete ponti, ospedali, acqua potabile.
Personalmente ho sempre dato ampio spazio a queste tematiche. Quando ero secondo e poi primo segretario a L’Avana fondai la Settimana della cultura italiana a Cuba, che è felicemente sopravvissuta alla mia presenza in sede, giungendo quest’anno alla quindicesima edizione. Resterà per me un ricordo indelebile, in occasione della prima edizione, il viaggio con i camion dell’Orchestra nazionale cubana alla volta di Matanzas, oggi piccola cittadina della costa settentrionale dell’isola, ma produttrice nell’Ottocento della metà delle esportazioni mondiali di zucchero da canna, con una ricchezza tale da spingere le autorità comunali dell’epoca a far costruire nel 1863 un teatro d’opera che è un autentico gioiello, disegnato dall’architetto italiano Daniele Dell’Aglio come una sorta di Scala in versione tropicale, con una leggerezza caraibica. Percorremmo le stesse stradine utilizzate per il trasporto della canna da zucchero, portando con noi gli strumenti musicali dell’Opera dell’Avana, nonché tre cantanti e un direttore del Festival Puccini di Torre del Lago, per mettere in scena la Tosca dopo decenni di silenzio che aveva impolverato il teatro.
Ho continuato a farlo quando ormai, anni dopo, avevo una responsabilità più diretta. Console Generale a Basilea, ad esempio, ho avuto l’onore, non scevro di tristezza con il senno di poi, di organizzare insieme al Museo Tinguely, disegnato da Mario Botta, l’ultima mostra di Mimmo Rotella con il maestro ancora in vita, curata da Germano Celant. Con Maria Antonietta Terzoli, Ordinario di Letteratura italiana a Basilea, abbiamo rafforzato l’Istituto di italianistica e organizzato eventi di altissimo valore accademico, comprese le celebrazioni del Sesto centenario della nascita di Enea Silvio Piccolomini, che nelle vesti di Papa Pio II fondò nella città renana il primo ateneo svizzero.
Ambasciatore a La Paz, ho fatto in modo che l’Italia divenisse co-finanziatrice del premio nazionale di narrativa boliviano, con un membro italiano sempre presente nella giuria; ho ripetuto l’esperienza cubana, organizzando tre edizioni della Settimana della cultura italiana in Bolivia; sono riuscito a far aprire una cattedra di italiano presso l’Università Mayor de San André de La Paz, il più prestigioso ateneo pubblico del paese; ho ottenuto la presenza di Achille Bonito Oliva quale presidente della Biennale de La Paz nel 2009 e di Jannis Kounellis, nella stessa occasione, quale invitato d’onore, come avevo fatto nel 2007 con Giancarlo Neri. Ho fatto partecipare il Piccolo Teatro al Festival del Teatro de La Paz nel 2010, organizzando tra l’altro un corso di teatro gratuito per venti studenti delle Accademie di recitazione di tutta la Bolivia con Ferruccio Soleri, il leggendario Arlecchino di Strehler. Nelle varie edizioni del Festival boliviano del Fumetto sono venuti personalmente Lorenzo Mattotti e Tanino Liberatore, il creatore di Ranxerox. Alla Fiera del libro de La Paz ha partecipato tra gli altri Enrico Testa, uno dei massimi poeti italiani, vincitore quest’anno del Viareggio.
Cito soltanto alcune iniziative per dare un’idea di quanto io consideri strategicamente prioritaria l’azione culturale in proiezione esterna.
Una conferma di ciò viene dalle interviste fatte in questi mesi da Carlo Pulsoni a molti protagonisti della cultura italiana nel mondo.
Noto una straordinaria coincidenza nelle motivazioni che hanno spinto in diverse aree del mondo persone con esperienze pregresse diverse – alcuni addirittura stranieri – a farsi portatori della cultura e della lingua italiana. Per molti la missione dell’insegnamento e il ruolo di «piccolo ambasciatore linguistico e culturale» ( https://www.insulaeuropea.eu/leinterviste/interviste/pulsoni_silvestri.html) si accompagnano a una necessità personale di mantenere la propria identità e combattere la sensazione di straniamento che deriva dal vivere all’estero, pur in condizioni di grande integrazione, di padronanza della lingua locale, talora di legami familiari. «Gli italiani della seconda e della terza generazione hanno in generale mantenuto forti legami affettivi e culturali con l’Italia», osserva in proposito Franco Musarra» (https://www.insulaeuropea.eu/leinterviste/interviste/pulsoni_musarra.html). Si rientra nel discorso che facevo più sopra: la questione delle radici e dell’identità, giusta o sbagliata che sia, resta uno dei temi esistenziali avvertiti con maggior intensità, nella nostra contemporaneità.
D’altro canto, le motivazioni che spingono oggi uno studente straniero a studiare l’italiano sono molto simili, si tratti di canadesi, spagnoli, marocchini o islandesi. Da un lato vi è la forza trainante della nostra «grande tradizione letteraria, artistica, operistica» ( https://www.insulaeuropea.eu/leinterviste/interviste/pulsoni_silvestri.html); dall’altro, i modi più recenti di declinare il fascino esercitato dall’Italia, pur sempre basato sulle consolidate qualità di cura dell’immagine, del disegno e della qualità della vita: «l’eleganza, la moda, il buon gusto» ( https://www.insulaeuropea.eu/leinterviste/interviste/pulsoni_silvestri.html), «la gastronomia ed il cibo, la moda, lo sport» ( https://www.insulaeuropea.eu/leinterviste/interviste/pulsoni_livorni.html), «la musica, a cucina, l’abbigliamento, il calcio, il cinema» ( https://www.insulaeuropea.eu/leinterviste/interviste/pulsoni_kunishi.html).
Nella mia esperienza personale ho potuto vedere con chiarezza quanta ammirazione ancora oggi il nostro Paese susciti all’estero, nonostante le difficoltà economiche e sociali, e quanto sia universalmente associato a quelli che ormai tendiamo a considerare luoghi comuni, a volte mettendoli da parte con fastidio, quasi temessimo di essere troppo banali se li ricordiamo. In realtà è grazie allo straripante potere culturale che l’Italia ha una visibilità unica nel mondo, e non è vero che la nostra immagine sia ferma al Sei o al Settecento: il design, la gastronomia, perfino le coppe del mondo di calcio conquistate nel 1982 e nel 2006 hanno segnato l’immaginario di generazioni di stranieri.
Uno dei temi che suggerirei di sviluppare per chi volesse proporre iniziative originali e di sicuro impatto è una riflessione, che coinvolga esperti italiani e del paese straniero, sull’influenza che su quest’ultimo e sulla lingua di quest’ultimo ha avuto il diritto romano. La nostra cultura ha senza dubbio suscitato entusiasmo e seguiti in ogni campo, dall’arte figurativa alla musica, dalla letteratura alla moda, ma in nessun altro come nel diritto ha letteralmente conquistato il mondo. Oggi quasi tutti i sette miliardi di abitanti del pianeta utilizzano quotidianamente istituti nati e costruiti da un pugno di giuristi di un’unica città sulle colline dell’Italia centrale. Perfino chi si muova in un ambiente di Common Law usa in realtà termini e forme giuridiche romane, quando tratta la proprietà, il possesso, i contratti, il matrimonio, la filiazione.
C’è però una terza motivazione che emerge con forza perfino maggiore dalle interviste e che a volte tendiamo a sottovalutare: per gli studenti islandesi, per esempio, l’italiano «significa lavoro, non solo come guide e/o accompagnatori di gruppi, ma anche a livello manageriale» ( https://www.insulaeuropea.eu/leinterviste/interviste/pulsoni_rosatti.html). Gli studenti di italiano polacchi «hanno, per lo più, qualche interesse specifico legato all’Italia» ( https://www.insulaeuropea.eu/leinterviste/interviste/pulsoni_sosnowski.html). Per quelli marocchini «una laurea in una lingua straniera consente maggior accesso al mercato del lavoro e la possibilità di continuare gli studi», anche nello stesso Marocco ( https://www.insulaeuropea.eu/leinterviste/interviste/pulsoni_moktary.html).
È appunto la dimensione di sviluppo dell’insegnamento della lingua e della cultura cui ho fatto cenno più volte, e che non va vista semplicisticamente come strumento per emigrare meglio in Italia, tanto più che riguarda anche paesi relativamente ricchi come l’Islanda o membri dell’Unione Europea come la Polonia; è anche, come ha osservato Moktary nel caso del Marocco e come io stesso ho potuto recentemente comprendere in Bolivia, un investimento per lo sviluppo nel paese d’origine.
Certo, nel caso di un paese di storica emigrazione qual è l’Italia, vi è anche una quarta motivazione: gli «studenti di origine italiana che vogliono recuperare le loro radici» ( https://www.insulaeuropea.eu/leinterviste/interviste/pulsoni_livorni.html) e cercano «la possibilità di comunicare nella lingua dei loro genitori o nonni» ( https://www.insulaeuropea.eu/leinterviste/interviste/pulsoni_brancato.html). È anche interessante notare come quando si dice che l’emigrazione italiana è giunta ormai alla seconda o terza generazione – ma perfino alla quinta o alla sesta, se si guarda a Stati Uniti e America del Sud – si trascuri spesso una nuova modalità di seconda generazione, che non è più solo quella dei figli di coppie italiane emigrate in un dato paese, ma talora quella dei figli di coppie miste, magari nati sul suolo italiano e tornati a vivere nel paese dell’altro genitore, ovvero nati direttamente lì ( https://www.insulaeuropea.eu/leinterviste/interviste/pulsoni_sosnowski.html). Anche Musarra ricorda «i figli di coppie miste, che [hanno] per l’Italia un interesse e un amore notevole» ( https://www.insulaeuropea.eu/leinterviste/interviste/pulsoni_musarra.html).
Un’ultima annotazione sul ruolo delle istituzioni italiane all’estero, Ambasciate, Consolati e Istituti di Cultura in primis: il quadro che emerge dalle interviste pubblicate negli scorsi mesi su Insula Europea fa giustizia di tanti luoghi comuni – essi sì, tali – e conferma invece l’impegno della diplomazia culturale italiana pur in questi tempi di crisi economica e di riduzione del bilancio pubblico. «I rapporti di collaborazione tra la mia cattedra e tutto il programma di italianistica, da una parte, e l’Istituto Italiano di Cultura a Chicago, dall’altro, sono ottimi. […] Va anche detto che il territorio che l’Istituto Italiano di Cultura di Chicago deve coprire è molto vasto e quindi è tanto più ammirevole il sostegno che riescono a dare a iniziative come le nostre», dice Ernesto Livorni ( https://www.insulaeuropea.eu/leinterviste/interviste/pulsoni_livorni.html). «L’Istituto Italiano di Cultura è un po’ il punto di raccordo fra le attività dei vari programmi di italianistica presenti nelle università di Montreal», aggiunge Dario Brancato ( https://www.insulaeuropea.eu/leinterviste/interviste/pulsoni_brancato.html). «Il Governo italiano è, diciamo, forse il soggetto più importante per quanto riguarda la “collaborazione” con la sezione di italianistica dell’Università d’Islanda. […] È grazie alle sollecitazioni fatte dall’Ambasciata di Oslo che l’Università d’Islanda si è decisa, nel 2006, a bandire il concorso per una cattedra di italiano stipendiata dall’università stessa», commenta Stefano Rosatti ( https://www.insulaeuropea.eu/leinterviste/interviste/pulsoni_rosatti.html). «L’Istituto mostra una grande disponibilità nei confronti della nostra università», è il giudizio di Roman Sosnowski ( https://www.insulaeuropea.eu/leinterviste/interviste/pulsoni_sosnowski.html). «Abbiamo ottimi rapporti con le Istituzioni italiane in Marocco, in particolare con l’Ambasciata e con l’Istituto Italiano di Cultura», dice Mohammed Moktary ( https://www.insulaeuropea.eu/leinterviste/interviste/pulsoni_moktary.html). E chiude Musarra: « I miei rapporti con gli Istituti Italiani di Cultura sono stati sempre ottimi, sia in Olanda sia in Belgio. […] E va detto che altrettanto importante (specie per il prestigio dell’Italianistica all’interno dell’università) mi è stato l’appoggio degli ambasciatori» ( https://www.insulaeuropea.eu/leinterviste/interviste/pulsoni_musarra.html).
Insomma, siamo forse più bravi a far sistema di quanto non ci diciamo tra di noi per primi. Eccedendo in quello spirito critico che in fondo ha fatto grandi alcuni degli autori menzionati, perché letti nei loro corsi, dai professori intervistati: da Dante a Pasolini, da Boccaccio a Calvino. L”importante è essere coscienti che dietro lo spirito critico si cela un grande patrimonio, ancora vivo e fecondo.
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L'autore
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Silvio Mignano è nato a Fondi il 23 ottobre 1965. È scrittore e diplomatico di carriera: ambasciatore d’Italia in Bolivia, dal 2007 al 2010, in Venezuela dal 2015 al 2019, e attualmente in Svizzera.
Ha pubblicato i romanzi Una lezione sull’amore (Fazi, 1999), Le porte dell’inferno (Fazi, 2001), Pilar degli invisibili, La favola del mercante Docibile e della principessa siriana (Robin-Biblioteca del Vascello, 2015), Il Danzatore inetto (DeriveApprodi 2018), il libro di favole Il regalo del rinoceronte (Manni, 2004, con illustrazioni dell’autore), le raccolte di poesie Taccuino nero per il viaggio (Caramanica, 2003), Non abbiamo uno sceneggiatore di scorta (Gente Comun, La Paz, 2009), La nostra ribelle buona educazione (Manni, 2011, con prefazione di Enrico Testa, Premio Sertoli Salis 2012 per il miglior libro italiano di poesia del biennio) e I Venerdì Santi (Passigli, 2017), e il libro di racconti El Bolígrafo Boliviano (Robin-Biblioteca del Vascello, 2015).
I suoi libri sono stati tradotti in spagnolo.
Ha tradotto tra l’altro l’antologia di poesie cubane L’isola che canta (Feltrinelli, 1998, a cura di Danilo Manera), Río Quibú di Ronaldo Menéndez (Fazi, 2009), I miei fratelli Fidel e Raúl, di Juanita Castro (Fazi, 2010, con lo pseudonimo di T. Ferreri) e l’antologia di poeti venezuelani Mezzogiorno in Venezuela (Robin-Biblioteca del Vascello, 2017).
Con lo pseudonimo di Mario Cabrera Lima ha scritto la sceneggiatura del film Haiti Chèrie di Claudio Del Punta, premio Giuria Giovane al Festival di Locarno nel 2007 e premio proprio per la sceneggiatura al Festival di Mons (Belgio) del 2007.
È stato anche presidente del comitato organizzatore della Biennale dell’Arte contemporanea de La Paz nel 2009, quando il Presidente della Giuria era Achille Bonito Oliva.
A Basilea ha curato con Germano Celant nel 2006 Avenue Rotella, l’ultima mostra di Mimmo Rotella ancora vivente, tenutasi presso il Museo Tinguely. Collabora con il mensile italiano L’Indice dei Libri, con L’immaginazione (Manni editore), con Margini, la rivista dell’Istituto di Italianistica dell’Università di Basilea, diretta da Maria Antonietta Terzoli, con Insula Europea, rivista on line diretta da Carlo Pulsoni, e con l’Enciclopedia Treccani.
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