ISBN 9788860876799, 236 pp.
Escono per la prima volta in traduzione italiana i più importanti racconti di Josefina Plá (1903-1999), scrittrice spagnola – ma paraguayana d’adozione – che del paese sudamericano in cui trascorse gran parte della sua vita fu figura intellettuale di primo piano: con la sua personalità poliedrica e carismatica portò un contributo decisivo all’ammodernamento culturale di quell’arretrato paese. Apprezzata soprattutto per la poesia, più che per la narrativa rimasta a lungo inedita, fu anche giornalista, drammaturga, eccellente saggista, autrice di favole per bambini, e, alla scuola del marito ceramista, si cimentò persino nelle arti plastiche. Eppure Josefina Plá per il pubblico europeo (eccettuati i cultori di letteratura sudamericana) resta una sconosciuta. Ma chi leggerà questi racconti scoprirà un quadro straordinario della società paraguayana tra gli anni Trenta e Sessanta del secolo scorso, e testi di grande interesse anche dal punto di vista letterario.
All’inizio si è coinvolti soprattutto emotivamente, tanto sono tristi e disperate le storie – in particolare le storie di donne – che la scrittrice racconta. La condizione delle ragazze indie o meticce nel Paraguay dell’epoca non può lasciare indifferenti: è una via crucis di miseria, di soprusi, di violenze; vite non vissute, ma trascinate, giorno dopo giorno, in un infinito squallore che non lascia mai intravedere speranza di riscatto. Josefina Plá – donna di profonda cultura e di acuta intelligenza – ci ha lasciato belle pagine in cui fa dell’autoironia su questa predilezione per il lato tragico dell’esistenza che caratterizza la sua ispirazione (o meglio quella che lei chiama ‘espirazione disintossicante; come se scrivere di tanta tristezza fosse, più che una mimesi della realtà, un antidoto alla realtà stessa, qualcosa di simile all’antica funzione catartica della tragedia greca). L’autrice, scherzando, nega che quelle storie rivelino una latente inclinazione sadica. È l’ambiente circostante –sottolinea in un’intervista – che determina questa prevalente inclinazione al drammatico. È vero che “i miei eroi ed eroine, poveretti, per il solo fatto di entrare in una mia storia, firmano la loro condanna a morte in una percentuale impressionante. Perché tale sterminio dei miei amati personaggi, soprattutto tenendo presente che non sono capace di ammazzare una mosca?”. Il fatto è che la realtà – ecco la giustificazione dell’apparente crudeltà mentale, se possibile ancora più tremenda del sospetto di una vena sadica – “non è più compassionevole di me”.
Donna Josefina racconta le sue storie terribili senza sentimentalismi, a ciglio asciutto. Il momento culminante del dramma è spesso appena accennato, suggerito più che descritto: come se la scrittrice preferisse defilarsi, per una sorta di pudore dei sentimenti, dalle scene più patetiche, lasciando a qualche personaggio – umano o animale che sia – il compito di scoprire, o di farci capire, l’evento che si è compiuto. È il caso dei bambini di Manuela che non riescono a entrare nel rancho dove la madre giace cadavere, dissanguata da un aborto spontaneo; è così per la moglie del dottore, la ‘padrona di Minguela, che scopre prima l’esito tragico delle gravidanze della ‘bambinaia magica e poi il commovente dedicarsi di questa creatura miserabile, ai limiti della sopravvivenza, all’assistenza della vecchia Ña Conché se possibile ancor più povera e sola di lei; e lo stesso accade quando i cani che trovano il corpo della desaparecida Sisé, morta di parto in totale solitudine, ancora bambina, nello stesso campo dove sua madre era stata ammazzata per il furto di una pannocchia accanto a quel fagottino che era lei, neonata salvata dalla morte solo per una breve esistenza di angherie e di sofferenze, pochi anni che sarebbe stato meglio non vivere.
In un primo momento, dunque, si resta traumatizzati dal cupo incombere di un destino tragico che, si direbbe, tiene in ostaggio i protagonisti di questo mondo remoto e non li molla mai, pronto a riafferrarli e a scaraventarli di nuovo nella desolazione dopo una breve illusione di piccola felicità, come accade alla povera Delpilar. Ma dopo questo impatto-choc si scoprono altri livelli di lettura, perché Josefina Plá è tutt’altro che una scrittrice naïve, e mi domando anzi se la sua narrativa non debba qualcosa ai grandi romanzi del realismo ottocentesco, se la nostra autrice non abbia riconosciuto nei miserabili ranchos o nelle estancias del mundo aparte una specie di corrispettivo esotico dei bassifondi londinesi di Dickens o degli inferi parigini di Sue o della corte dei miracoli di Hugo, collocando insomma quei suoi personaggi apparentemente così lontani e così estranei alla cultura europea all’interno di una tradizione letteraria di attenzione agli umili che anche la nostra letteratura conosce bene, e che in ambito iberico ha radici antiche, addirittura nella tradizione picaresca.
Naturalmente, ammesso che innesto vi sia stato tra suggestioni ambientali e reminiscenze colte, restano in primo piano le peculiarità che rendono unico l’esperimento Plá. Che trae origine da uno sradicamento volontario, quello di una ragazza che affronta una traversata oceanica – nuovo Colombo in gonnella, dirà lei, suggerendo un’identificazione con gli scopritori e i primi conquistadores del nuovo mondo che spesso affiora nella sua scrittura – per raggiungere il marito sposato per procura e approda in un’isola sconosciuta; non un lembo di terra sperduto in mezzo al mare come quell’isolotto delle Canarie dove il padre era guardiano del faro e dove aveva trascorso i primi anni dell’infanzia, ma un’isola nella terra, un’isola senza mare. Un paese in cui giunsero secoli prima, partiti come lei dalla Spagna, uomini che con le popolazioni locali avevano stretto alleanze, creato famiglie, dato vita a generazioni meticce; ma che si erano spesso trasformati in sfruttatori e carnefici. Anche nel rievocare l’epoca arcaica dei primi contatti tra etnie autoctone e invasori, Josefina Plá evita i luoghi comuni, scava nel profondo della psiche (ha meditato Freud e ce ne accorgiamo) e si pone – ci pone – problemi. In un racconto bellissimo che è anche il suo più noto, La mano nella terra, ambientato nel Paraguay del 500, il protagonista morente, don Blas de Lemos, è un anziano hidalgo che ripercorre la sua vita come in una sequenza cinematografica. Qual è il bilancio finale di don Blas? Due rovelli turbano i suoi ultimi istanti: il ricordo della giovane moglie abbandonata in Spagna per l’avventura transoceanica e la consapevolezza amara della sua irrimediabile estraneità, dopo tanti anni, a quella terra in cui in fondo non è riuscito a mettere radici. Estraneità ai suoi figli, al suo stesso sangue: perché i suoi figli sono ‘figli della terra, di quella terra, perché dalla madre indigena e non dal padre hanno ereditato cultura, tradizioni e soprattutto la lingua. Quella lingua guaraní così perentoria nel sancire l’esclusione, quando distingue il ‘noi includente, ñande, dal noi, appunto, escludente, ore. Quella lingua che si definisce con la stessa parola – ñee – che significa anima. Un’anima rimasta viva – e con lei il popolo autoctono – finché le indigene riuscirono a trasmetterla ai figli meticci: figli dei bianchi, certo, ma molto più figli loro per quell’anima-lingua insufflata nel contatto quotidiano coi piccoli, in assenza dei padri, impegnati altrove o comunque disinteressati alla loro educazione.
E però il destino delle lingue tribali era segnato, la prevalenza della lingua dei conquistatori come veicolo di cultura inevitabile. Si perse con la lingua quel residuo potere matriarcale di garantire l’identità comunitaria. Il silencio indio (esemplare quello, enigmatico e sorridente, della bambinaia magica Minguela) è il silenzio dell’anima, sospesa tra l’incomunicabilità della lingua materna e la sostanziale estraneità all’altra, imposta dai forestieri. Così, nella visione disincantata di Josefina Plá, si capisce che l’integrazione auspicata dall’intelligenza è pura astrazione: c’è sempre un vinto, c’è sempre un vincitore, destinati – o forse condannati – a vivere fianco a fianco, ognuno soffrendo in maniera diversa la propria estraneità.
Straniera lei stessa, l’autrice osserva con cognizione di causa i complessi rapporti all’interno della società meticcia del Paraguay e i loro riflessi linguistici. Anche sotto questo aspetto, il suo è uno sguardo molto acuto. Il castigliano colto della sua scrittura, che include volentieri termini rari o scientifici, nella mimesi della parlata più popolare acquisisce i fenomeni tipici dell’ispanoamericano, in una misura variabile direttamente correlata allo status sociale del locutore: a volte compaiono solo tratti sporadici, mentre in altri casi si riscontra un’intrusione massiccia di calchi e solecismi. E sono frequenti gli inserti guaraní, che nella versione italiana sono stati lasciati intatti (anche se tradotti in nota o nel glossario); scelta, questa, che certo richiede un po’ d’impegno al lettore, ma non si poteva fare altrimenti, perché era fondamentale dare un’idea, ancorché approssimativa e imperfetta, della varia mescolanza delle lingue nell’originale, di quella polifonia che è un elemento costitutivo dei cuentos.
Va da sé che non è questa – la presenza di una lingua remota come il guaraní unita alla difficoltà di rendere in italiano i diversi livelli di castigliano – la sola difficoltà per il traduttore (per altro brillantemente risolta da Francesca Di Meglio, che ha inserito nel glossario un piccolo repertorio di usi e costumi del Paraguay). L’autrice gioca su una molteplicità di registri: il suo stile si presenta talvolta scarno, essenziale, persino dimesso; una specie di grado zero della scrittura. Altrove incontriamo invece metafore folgoranti, giochi di parole, e anche squarci quasi lirici in cui riaffiora il gusto della parola inconsueta e delle sottili armonie foniche tipico della Plá versificatrice raffinata. Qualcosa, fatalmente, va perduto nel passaggio a un’altra lingua. Ma il lettore scoprirà ugualmente in questi racconti un mondo remoto nello spazio e ormai anche nel tempo, eppure così insospettabilmente vicino per i problemi prima sconosciuti che, nel frattempo, la nostra società si è trovata ad affrontare: la convivenza col diverso, le difficoltà dell’integrazione. Più il dramma antico e mai risolto, a dispetto dell’emancipazione femminile e della parità raggiunta in ogni campo nei paesi evoluti, della violenza sulle donne. Le sconvolgenti cifre dei ‘femminicidi di cui tanto si parla in questi giorni ne sono tragica testimonianza.
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