Nel rivedere il ritratto di Gianfranco Palmery, dipinto più di venti anni fa, non mi è più chiaro se lo volessi rappresentare come un armigero nel campo d’onore o come un astronauta negli universi siderali. In entrambi i casi, questo cavaliere solitario, con fare felino, piglio sicuro e nobile cipiglio, scriveva disegnava creava riviste case editrici e, con l’ausilio di codeste armi, lanciava intrepido la sua sfida al mondo intero.
Qui di seguito mi è caro riproporre due testi di Gianfranco su suggestione di Nancy Watkins:
Sul mito
Sul mito. Non abbiamo più miti, perché abbiamo macellai… Il mito gronda di sangue rituale; perduto il sacrificio, non c’è che macelleria. Tutta la carne del mondo spenzola agli uncini della cronaca. Restano i discorsi, le divagazioni: i nostri miti grondano d’inchiostro.
Dare forma e nome a forze inconvocabili – cioè addomesticarle, o domarle per un po’ mentre già si modificano: è da questo agonismo, da questa impresa corale e demonica che nasce il mito. Questo hanno fatto i greci, in una secolare frenesia metamorfica, edificando con sangue e nervi dagl’Inferi all’Olimpo; o nella modernità quanti hanno evocato la forza panica del burlador, fino a Tirso che per primo lo ha canonizzato; o la violenza, sì, la violenza boreale di Amleto, l’iperbolica avidità di Vathek… Scrivere sui miti o rivisitare i miti, esangui esercizi di contemporanei, è arredo o arcadia.
Amleto, Don Giovanni, Vathek, Michele Kohlhaas, Gregorio Samsa, il Console Firmin… questi sono i miti che più da vicino ci toccano, le notizie dall’inferno che ci riguardano.
E se diciamo Sisifo o Issione, quel che attingiamo dal museo della mente primigenia sono nomi-metafore, spoglie inconsutili e lucenti dove riparare un io che evapora nell’insensato quotidiano.
Inchiodati allo specchio in una nudità e uno spossessamento irreparabili, non aneliamo che allo sfarzo del costume, al fard che ci fa vivi ai nostri occhi: il mito è il nostro teatro – il nostro mito è (il) teatro; l’anima claustrale e istrionica ha coltivato il fiuto del trovarobe, è nell’odore glorioso e funereo degli abiti di scena che si riconosce e respira. Ma se ce ne andiamo succinti a invocare gli dei in riva al mare o c’insediamo in confortevoli olimpi, siamo davvero perduti: ingenui o in malafede, l’effetto Liebig c’inghiotte.
Il grande mito della contemporaneità, lo sappiamo, è la Merce – mito destitutore d’ogni mito e inassumibile dalla poesia. Può allora verificarsi solo un derisorio paradosso: che lo pseudo-mito, isomorfo dell”industria, lustro e confezionato sotto vuoto spinto, finisca sugli scaffali delle merci – ma non è, appunto, che l’impudente negazione di se stesso… (15.VIII.95–2.I.99)
http://www.labirintolibri.com/palmery/poetain100pezzi.html
Le tigri dell’ira
Specula et spectacula: quelle battute, quelle smorfie, quelle gesticolazioni: si specchiano gli uni negli altri coi loro logori repertori obbligati: cortigiani e avversari, ingrugnati o ridenti o irridenti…
Sono spettri che si affollano la sera negli studi televisivi e affiorano dagli schermi per entrare nelle inquiete stanze degli italiani – rappresentanti del popolo e presentatori popolari: macchinali silhouettes, caricature umane che hanno perso il loro peso specifico in pensiero e sangue, involucri divorati da una mortale irrealtà.
Eccoli replicare nello specchio allucinato dei televisori, la partita truccata che si trascina nella luce smorta di parlamenti malati – tra la protervia di chi impone e l’ignavia di chi si oppone – senza nerbo, senza sdegno, senza ingegno: tutti comunque fatalmente alieni da una diversa idea del mondo che non contempli il prodotto lordo ma la lordura che produce.
Milioni di occhi e di orecchi soccombono a quei vaniloqui, disperano o si stordiscono con lo sberleffo dei comici – mai così folti come in questi anni drammatici!
Ma dal profondo, da un interno subbuglio, non sale, non arriva a farsi sentire la voce di dentro che intima: non ridete, adiratevi?
«Le tigri dell’ira sono più sagge dei cavalli dell’educazione.»
A dominare, ahinoi, sono i cavalli: tranquilli trotterellano coi loro personali paraocchi e anche quelli che s’impennano sono sicuri della stalla e del foraggio.
«Aspettati veleno dall’acqua ferma. »
Lode all’autore dei Proverbi infernali – e guai a quel popolo che non è capace di adirarsi.
(venerdì 1 luglio 2011)
http://diariodipalmery.blogspot.it/2011/07/le-tigri-dellira.html
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L'autore
- Enrico Pulsoni è il direttore di Insula europea (http://www.insulaeuropea.eu/enrico-pulsoni/)
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