Il ritratto fotografico di copertina è di Adriana Hösle Borra
Antonello Borra vive da ormai trenta anni negli Stati Uniti ed è ordinario di Lingua e letteratura italiana alla University of Vermont. Poeta, traduttore e studioso è autore di Guittone d’Arezzo. Selected Poems and Prose (2017) e Guittone d’Arezzo e le maschere del poeta (2000). I suoi libri di poesia sono Fabbrica delle idee (2019), Alfabestiario (2013 e 2009), Alphabetabestiario (2011), usciti bilingui italiano-inglese, Frammenti di tormenti (seconda parte) (2006) e Frammenti di tormenti (prima parte) (2000). Una selezione dai suoi bestiari è anche uscita bilingue italiano-tedesco col titolo Alphabe Tiere (2015). Ha cotradotto due volumi dell’autobiografia di Johannes Hoesle E adesso? (2006) e Prima di tutti i secoli (2003). È autore di contributi critici su diversi poeti italiani (Nanni Cagnone, Patrizia Cavalli, Guido Gozzano, Valerio Magrelli, Camillo Pennati, Giovanni Raboni, Emilio Rentocchini, Patrizia Valduga, Dario Villa) e di traduzioni di poesie dall’inglese (W.S. Merwin, Greg Delanty), dal tedesco (Michael Krüger, Johannes Hoesle), dallo spagnolo (José Watanabe, Roberto Sosa) e dal catalano (Ramon Farrés, Cinta Massip). Sue poesie sono apparse su “Ecozon@”, “Gradiva”, “In forma di parole”, “Italian Poetry Review”, “L’immaginazione”, “Nuovi argomenti”, “Poesia” e “Steve”.
La tua ultima silloge si intitola Fabbrica delle idee, dal nome con cui la gente chiamava il manicomio di Racconigi, dove è stato rinchiuso tuo nonno. Chi era tuo nonno e come nasce l’idea di una raccolta dedicata a un luogo come il manicomio?
Mio nonno è stato una delle innumerevoli vittime della guerra, della guerra prima e dell’istituzione manicomiale poi. Nato nel 1891, fu spedito a combattere quella che era pure una guerra coloniale, in Libia. Rimase gravemente ferito alla battaglia di Zanzur l’8 giugno 1912 e fu decorato con la medaglia d’argento al valor militare. Partecipò anche alla Grande guerra. Tornò, si sposò, fece quattro figli, tra cui mio padre, ma a un certo punto cominciò a star male. La seconda metà della sua vita, dal 1932 al 1974, la passò in manicomio, a Racconigi, in provincia di Cuneo, in un istituto che la fantasia popolare aveva battezzato “La fabbrica delle idee”, anche perché l’impianto architettonico ricordava quello di un complesso industriale. L’ho visto una sola volta in vita mia, in una casa di riposo. Da molto tempo ormai non sapeva più chi fosse; io avrò avuto 15 anni. Quando, qualche anno fa, ho incontrato lo psichiatra che lo aveva dimesso e ho anche potuto leggere la sua cartella clinica, sono rimasto scioccato. La vulgata della sua storia, quella che in famiglia ci avevano raccontato, era piena di reticenze, e in sostanza si limitava a una frase, “ha perduto la memoria”. Direi che il libro è un modo di ricordarlo, di dare una voce a lui e a molti che erano con lui, tutte vittime dell’istituzione manicomiale, spessissimo persone buone, non certo pericolose, cui la voce era stata sottratta, la cui identità era stata cancellata da quella che era una delle funzioni dell’istituto manicomiale, la soppressione delle devianze, o meglio delle differenze da un discutibilissimo criterio di normalità.
Nella silloge si alternano svariate voci maschili e femminili: appaiono così le figure dello schizofrenico, dell’invasato religioso, dell’omosessuale, della ninfomane e così via. Questi ritratti “autobiografici” mi hanno richiamato alla memoria la ben nota Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters. Si tratta di una mia suggestione o c’è un fondamento di verità?
L’Antologia di Lee Masters è senza dubbio uno dei principali testi di riferimento. Ma ce ne sono parecchi altri, soprattutto in prosa, saggi e opere letterarie, da libri molto celebrati come quello di Mario Tobino, Le libere donne di Magliano, ad altri meno conosciuti, come Graffiti della follia di Ennio De Concini, uno degli sceneggiatori più importanti del nostro cinema. Il mio debito di riconoscenza con questi due libri in particolare lo riconosco nel Poscritto che ho messo in fondo al libro.
I tuoi testi sono così intensi da far sembrare che tu abbia una conoscenza diretta del disagio mentale. Penso a tale proposito a quanto scrivi nella Premessa al volume di tuo suocero Johannes Hösle, Album aus/da Dietenbronn, dove fai riferimento a un suo periodo difficile “caratterizzato dalla presenza costante del dolore fisico e psichico”. Nella Premessa di Hösle poi si legge: “Qualsiasi occupazione intellettuale connessa con il leggere e lo scrivere era a quel tempo impossibile. Inoltre, ero in balia delle ansie e delle impressioni della vita in clinica. Solo dando ad esse una forma potevo impedire che diventassero vere e proprie ossessioni. Provai quindi un grande sollievo quando la mia scrittura, pian piano, tornò leggibile e svanirono le zone d’ombra dal mio campo visivo. Comporre poesie aveva poi una ragione pragmatica”. Eppure i versi di questa raccolta non sembra che lascino molto spazio alla speranza di un futuro migliore. Penso ad esempio a Il letto (“Non è ancora essere in salvo, / ma farsi altre domande / per ora è superfluo”), Le formiche (“Ti contorci tra / dolori interminabili / e, madido di sudore, cerchi il sonno, / che paghi a caro prezzo con questo sogno”). Torniamo alla tua silloge che ho molto apprezzato (tra le mie preferite le poesie ai numeri: 2, 7, 9, 14 e 21). La tua ispirazione deriva dalla concreta lettura di diari, visioni di docufilm, o si tratta di qualcosa che ha sedimentato nella tua mente?
Credo davvero che oggi, come forse mai prima nella storia dell’umanità, la gran parte di coloro che vivono nelle società tecnologicamente più avanzate abbia una conoscenza diretta di qualche forma di disagio mentale. A me sembra che siamo tutti sempre più frammentati, tormentati, alienati da quanto è davvero importante. E se mi permetti una riflessione a metà strada tra il serio e il faceto, tra il personale e il generale, il lavoro accademico, particolarmente in un Paese antintellettualista come questo, non aiuta a conservare il proprio equilibrio psichico. Comunque, hai ragione per quanto riguarda il libro di Hösle, è la testimonianza in presa diretta di un momento dolorosissimo, in cui non sembra più esserci spazio per la speranza proprio perché non ci si vuol fare, non ci si può fare, illusioni sulla natura di una malattia come la sclerosi multipla. Eppure, e l’esistenza del libro in fondo ne è la testimonianza, la speranza di farcela non viene mai meno, e chiunque abbia avuto la fortuna di conoscere Hans sa che la sua forza d’animo era straordinaria. Come dicevo prima, dietro a Fabbrica delle idee ci sono alcuni libri ben precisi. Ma ci sono anche cartelle cliniche, diari, documentari, colloqui con addetti ai lavori e di certo una crisi personale che mi ha spinto a scavare nella storia della mia famiglia e a fare i conti con quello che ho trovato. Scrivere quei monologhi, e tutti quelli che nel libro non sono poi confluiti, mi ha aiutato, spero, ad esorcizzare dei fantasmi, o perlomeno a viverci meglio insieme.
Quando si pensa alla poesia e al manicomio in Italia viene subito in mente il nome di Alda Merini, di cui ricorre quest’anno il decimo anniversario dalla morte. Ha avuto qualche influsso su di te la sua lettura?
“I poeti sono matti”, si sa. Lo scrive, esattamente così, anche Saba in un breve, bellissimo testo in cui riporta l’opinione di un giovane razionale e politicamente impegnato. La Merini è diventata una figura sempre più importante nel panorama poetico nazionale, conosciuta da un pubblico molto ampio, anche da persone che non frequentano normalmente la poesia. Direi che proprio la sua biografia contribuisca a consolidare quella che è opinione diffusa sul delicato, e discutibile, rapporto tra poesia e pazzia o, se non altro, tra un uso “eccentrico” del linguaggio e una condizione di eccentricità sociale. E non saprei disquisire sui meccanismi cerebrali o sugli interventi divini che presiedono all’ispirazione poetica. Devo però confessare che io non ho mai amato molto la poesia della Merini. Dubito che abbia avuto un influsso significativo su quello che scrivo, incluso Fabbrica delle idee.
Considerato che vivi ormai da anni negli Stati Uniti, trovi differenze nel trattamento del disagio mentale tra l’Italia e il tuo nuovo paese?
Questa è una domanda a cui non saprei proprio rispondere. L’impressione comunque è che qui ci vadano molto più pesante con i farmaci. Ma questo vale anche per il trattamento di qualsiasi altra forma di sofferenza. Non è un caso che in questo Paese ci si trovi adesso a fronteggiare una devastante dipendenza da oppioidi. Forse è il lato oscuro, uno dei lati oscuri, del pragmatismo americano.
L'autore
- Carlo Pulsoni è il coordinatore di Insula europea (http://www.insulaeuropea.eu/carlo-pulsoni/).
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